giovedì 31 dicembre 2009

SCARICARE TUTTO COMBATTE L'EVASIONE?

Un luogo comune è quello relativo al pensare che se si permettesse ai privati di scaricare in dichiarazione ogni spesa di vita, l'evasione verrebbe meno.
Mi ricordo che qualche anno fa l'argomento era stato affrontato con delle pagine dossier da un noto quotidiano economico. Venivano poste a confronto le esperienze di altri paesi. Il succo comunque era che allo stato questo modo di procedere avrebbe forse causato una diminuzione di gettito, salvo il riconoscere detrazioni molto limitate. Un altro problema è poi quello delle verifiche, cioè occorre istituire un sistema di controllo automatico dei dati indicati in dichiarazione da milioni di contribuenti, non potendo di certo pretendere che si facciano delle verifiche documentali effettive, se non a campione. Infine, considerato il fallimento, per ovvi motivi di impraticabilità, del tentativo di reintroduzione degli elenchi clienti fornitori, si capisce come questa strada di emersione dell'evasione, anche se corretta da un punto di vista teorico, dal lato pratico sia, invece difficilmente realizzabile.

mercoledì 30 dicembre 2009

ADDIO AI VALORI STORICI?

Abbiamo da sempre studiato che il criterio del costo storico
appartiene ai capisaldi che informano il TUIR in generale, sia da un
punto di vista civilistico (per le regole bilancistiche) che fiscale.
Questa chiave di lettura, oggi, mi pare di poter concludere, non
rispecchia più la realtà dei fatti. Anche la finanziaria 2010 proroga,
per l'ennesima volta, i vari provvedimenti di rivalutazione di inizio
anni 2000 (in particolare per terreni e partecipazioni), senza parlare
poi delle "rivalutazioni", ormai introdotte a regime, già da due anni,
per conferimenti, fusioni e scissioni. E non si dimentichi, nemmeno,
il riallineamento dei valori riguardanti i bilanci dei soggetti IAS.
Il tutto ovviamente mediante tassazione premiale "dell'annullamento",
medianto incremento dei costi, delle plusvalenze latenti. Lo "strano"
è il constatare che queste operazioni si sono radicate a livello
tributario proprio nel momento in cui i loro presupposti "scientifici"
sono venuti meno: infatti, periodi di forte inflazione,
fortunatamente, non si sono più verificati da quando i vari stati
europei hanno stretto il sodalizio relativo alla moneta unica. Quindi,
l'unica spiegazione logica è quella relativa a manovre di "drenaggio
fiscale", che trovano una giustificazione, più che di coerenza di
sistema, (salvo che per i provvedimenti di inizio anni 2000) nelle
esigenze incamerare entrate da parte dell'erario. Occorrerà, perciò,
cercare di capire se tutto questo potrà avere un effetto di
"trascinamento" o "condizionamento" sul resto del sistema fiscale, a
partire dal reddito d'impresa, con particolare riguardo al regime
delle c.d. operazioni straordinarie.

martedì 29 dicembre 2009

IL GIUDIZIO ED I SUOI CRITERI

Su questo argomento c'è senz'altro chi può essere in grado di scrivere un testo di 1000 pagine. In poche righe, però, si può dire che il Giudice, nel decidere il singolo caso sottoposto alla sua attenzione non può che comportarsi, inevitabilmente, come ogni essere umano. Quali saranno i criteri che di fatto seguirà nel confezionare la sentenza? Egli consapevolmente crederà di seguire regole giuridiche precise, come se dovesse, quale scienziato, applicare formule da laboratorio. In effetti, per talune fasi del suo procedere, più o meno, può essere proprio così: nel mentre, ad esempio, verifica la propria giurisdizione, competenza, la sussistenza di ipotesi di improcedibilità od, anche, se è alla presenza di un litisconsorzio per cui necessità l'integrazione del contraddittorio. Questi aspetti, ed altri, sono di contorno, quasi, oserei dire, secondari. Ma mentre si avvicina sempre di più al "cuore" della propria funzione, ovverosia il "decidere il merito" della vertenza, egli, probabilmente, in modo sempre più inconsapevole, tenderà a riversare nel motto suo interno di maturazione della decisione, non tanto i criteri giuridici (nel senso corrente del termine e cui crederà, invero, di seguire il più fedelmente possibile), ma quanto, piuttosto, altri criteri, sempre suoi interni, che lo informano come persona. Cioè tenderà a seguire i suoi valori intimi, le sue credenze, che, sotto questo profilo, poco si differenziano, anzi sono del tutto uguali, a quelli che informano l'agire di qualsiasi essere umano. Infatti, tendenzialmente, prima si agisce, poi si decide e successivamente, ancora, si giustifica. Parafrasando noti principi di psicologia: è più la comunicazione non verbale che quella verbale, più il non detto che il detto, e perciò, più il deciso (secondo equità) che il deciso secondo diritto.

giovedì 24 dicembre 2009

CASSAZIONE E STUDI DI SETTORE: POCHE NOVITA'

La Cassazione mi sembra che non dica nulla di nuovo rispetto a quanto
affermato dalla stessa Amministrazione con la storica circolare
5/2008. Quindi, nessun automatismo ma occorre ricalibrare l’elaborato
statistico sulla posizione del contribuente. E’, però un’ovvia
constatazione il rilevare che di fatto il contraddittorio sia molto
spesso in un qualche cosa di diverso, in genere, rispetto a quello che
dovrebbe essere. Si risolve, infatti, per lo più, in un mercanteggiare
sconti negli angusti spazi di riduzione che l’Agenzia si è data al
fine di rispettare i propri vincoli interni di budget. E’ vero, così
procedendo ci si allontana da quello che dovrebbe essere un
fisiologico momento di confronto fra Amministrazione e Contribuente.
Ma perchè ciò accade? Penso vi siano principlamente due ragioni. La
prima risiede nel fatto che il fisco deve trattare milioni di
posizioni e quindi con difficoltà risce ad avere il tempo e le risorse
necessarie per personalizzare le stime, anche limitandosi ad
analizzare quelle relative ai soli contribuenti selezionati. La
seconda motivazione è da ravvisarsi poi nella situazioni in cui tante
volte il contribuente medesimo versa di fronte al funzionario:
presentandosi, cioè, con poche carte a proprio favore, lo sconto,
probabilmente, ottenibile con un poco di efficace dialettica, diventa
di già un bel risultato. Comunque, per finire, mi sembra che si possa
ancora una volta affermare che in un contesto di fiscalità di massa
strumenti di valutazione serializzata, da applicarsi sui piccoli
autonomi (per la cui valutazione appare più congrua una stima dei dati
esteriori che non invece basarsi sull’attendibilità di risultati
contabili tante volte palesemente inverosimili), non vadano più di
tanto abborriti. Certo l’ideale sarebbe che questi strumenti, anzichè
essere utilizzati sul piano procedimentale, cioè, sul versante della
prova, venissero invece applicati quali criteri sostanziali di
determinazione, appunto para catastale, del reddito, su base
opzionale, ovviamente, da parte del contribuente.

venerdì 18 dicembre 2009

DIVIDENDI IN USCITA: NON BASTA L'IRES?

Forse, i casi in cui si applica la ritenuta a titolo d'imposta del 27%, sui dividendi in uscita, sono residuali, vista la quasi totale esenzione per quelli distribuiti oltrefrontiera a controllanti UE e le convenzioni contro le doppie imposizioni per il resto. Comunque, a ben vedere, questa norma di chiusura non ha molto senso ove si tenga presente che per il non residente il criterio della sua tassazione personale (con tutti i suoi corollari, tipo quello della progressività) perde, in concreto, significato, lasciando, invece, il posto al principio della tassazione reale sulla fonte del reddito. Nel caso dei dividendi tassare la fonte significa tassare la società che li produce con l'IRES, per cui, almeno così a me pare, almeno da un punto di vista terico, non vi è affatto bisogno di gravare ulteriormente questo tipo di reddito con la ritenuta di cui in premessa.

giovedì 17 dicembre 2009

REDDITOMETRO FRA SERIALITA' E PONDERAZIONI

Il redditometro potrebbe essere impiegato in modo seriale ma in una
versione light: si sommano le spese note all'agenzia (colf, viaggi,
ecc) più il minimo vitale per acquistarsi il cibo e l'accertamento
parte solo se quelle spese superano di molto il reddito.
La logica che funziona del redditometro è: a me Agenzia risulta da
dati "certi" che tu hai speso almeno 100 negli ultimi tre anni e hai
dichiarato un reddito netto medio di 20: dove hai preso i soldi?
I dati però devo essere appunto "certi" (es. stipendio annuo colf) e
non presunti in base ai moltiplicatori (es. stipendio annuo colf x 3).
Se infatti si applicano moltiplicatori "presuntivi" in modo rigido
alla massa, facciamo la fine degli studi di settore: accertamenti che
colpiscono maggiori capacità economiche solo sulla carta e tutte
ancora da dimostrare.
Insomma, a mio modesto parere, la serialità che funziona si deve
basare su elementi certi (si pensi ad esempio il controllo automatico
delle dichiarazioni per quanto riguarda gli omessi versamenti), mentre
le presunzioni richiedono una analisi caso per caso che non è
standardizzabile (e inoltre richiederebbe una sensibilità valutativa
specifica, da parte di esperti dell'attività oggetto di valutazione
che ESCONO DALL'UFFICIO e si mettono a stimare sul "campo" - e ciò in
Italia purtroppo non si è mai visto).
E' chiaro che l'attività di accertamento standard ha costi molto bassi
al contrario di un'analisi spefica svolta in modo serio. Ed è per
questo che si cerca di serializzare tutto. Ma serializzare anche le
presunzioni, senza dotare l'Agenzia delle competenze e sensibilità
necessarie per valutare, è un tentativo vano e destinato al
fallimento.
Claudio Cerutti

REDDITOMETRO AL LIFTING: ALCUNE CONSIDERAZIONI

Mi auguro che in sede di revisione dei coefficenti venga, per taluni di essi, tenuto conto, in senso favorevole ai contribuenti, del mutato contesto sociale. Il caso di badanti e colf è paradigmatico: non sempre vi è un'acclarata invalidità o non autosufficenza da parte della persona anziana per ottenere "l'esimente fiscale". I conti, spesso, sono quelli della serva: basta avere il sufficente per pagare l'addetta oltre che le minime spese di vita. Altro che 16.000,00 x 3. Emerge, poi, un altro aspetto importante, come lascia intuire il Prof. Beghin in questi giorni su Postilla: questi strumenti di accertamento non dovrebbero essere seriali ma lo sono in concreto, visto il contesto di fiscalità di massa. Qua, ormai da tempo, si ha lo strappo fra la necessaria ponderazione che l'ufficio dovrebbe calare su ogni posizione e l'impellenza di dover trattare molte, troppe pratiche, con vincoli (contrattuali ?! di budget fra Agenzia e Ministero). Insomma, non ce la fanno. Staremo a vedere.

mercoledì 16 dicembre 2009

DAL "PAN PROCESSUALISMO" AL "GIURISDIZIONALISMO", (OVVERO DALLA PADELLA ALLA BRACE)

Più che di "pan processualismo" si dovrebbe parlare di
"giurisdizionalismo", intendendo esprimere con ciò la pessima
abitudine degli operatori giuridici, in particolare del diritto
tributario, di far assurgere le massime giurisprudenziali, soprattutto
quelle di legittimità, a veri e propri "precedenti vincolanti" a
seconda, ovviamente, delle "convenienze. E' una tendenza comune ai
vari attori del "palcoscenico fiscale", fra cui in primis,
amministrazione, consluenti e giudici.
Fatta questa premessa appare, allora, non del tutto inutile richiamare
alcuni brevi concetti che penso possano servire a fare poco di
chiarezza su che cosa voglia effettivamente significare il termine
"precedente".
La Cassazione origina storicamente dal Tribunal de Casation francese
post rivoluzione come longa manus del potere legislativo diffidente
dei giudici possibili alleati dell'ancien regime. La sua funzione non
era tanto giurisdizionale ma piuttosto di controllo sul fatto che i
giudici non debordassero oltre la legge.
In Italia con la legge del 41 sull'ordinamento giudiziario le viene
attribuita la funzione nomofilattica...ma la sua natura è
giurisdizionale nell'interesse delle parti più che nell'interesse
pubblico di uniforme interpretazione della legge.
Se le categorie valgono qualche cosa e di qualche utilità può essere
richiamarle non possiamo dimenticarci, dividendo ancora una volta il
mondo in due, che il nostro ordinamento appartiene al sistema
denominato di civil law, tale per cui la pronuncia giudiziaria,
nemmeno quella della cassazione a sezioni unite fa precedente
vincolante: essa è giuridicamente vincolante solo per le parti.
Se questo è vero, allora, è completamente fuori luogo parlare di
retroattività o meno dei principi di ratio legis ricavabili dalla
sentenza. In Italia la sentenza, così come i principi da essa recati
nascono e muoiono lì, fra le parti. Legge vuota quella che sancisce
la nomofilachia, nemmeno le sezioni semplici vi sono obbligate (neppure
dopo la riforma del 2006) e neanche l'umile giudice di primo grado.
Detto questo, allora, è facile constatare che in Italia il precedente
funziona ma alla rovescia, rispetto a quanto avviene presso gli impavidi
sistemi di common law (qua come avete già notato è un ripiegarsi
comodo su una "zuppa", per casi diversi, già "masticata" da altri).
Il nostro sistema, di fatto, più che del "precedente" dovrebbe
denominarsi del "comodo" precedente. Ciò che preoccupa è proprio questo.
Pensiamoci bene: è sbagliato pensare che la "norma generale" possa
essere fatta dal giudice. Nei paesi anglosassoni il giudice "crea" la norma
(casomai nuova) sempre e comunque per il caso concreto che ha di
fronte.
Leggo da Peter Stein "La parte propriamente vincolante di una
precedente decisione è conosciuta coma la ratio decidendi.La ratio
decidendi di un caso non viene determinata dai giudici che decidono
il caso. Essa è identificata dai giudici dei casi successivi, i quali
devono decidere se la decisione costituisce oppure no un precedente
per essi. Tale natura di precedente sussiste se i fatti rilevanti del
caso anteriore sono gli stessi del caso attualmente in
decisione...altrimenti...si dice distinguono il caso anteriore che
non costituisce per essi un precedente. Pertanto il passaggio chiave è
l'accertamento del rapporto di somiglianza o di differenza tra i
fatti rilevanti di due casi". Continua l'Autore dicendo che quasto rapporto
di somiglianza o meno dipenderà su cosa il giudice vorrà porre
l'accento. Insomma, traspare chiaramente il ruolo attivo che il
giudice là deve avere.

lunedì 14 dicembre 2009

AVVIAMENTO FRA IMPOSTA DI REGISTRO E REDDITO D'IMPRESA

Da un punto di vista letterale appare evidente che l’Ufficio non può utilizzare, ai fini della determinazione della plusvalenza d’impresa derivante della cessione di azienda, gli stessi criteri valevoli per l’imposta di registro. Sembra un caso di scuola: la determinazione dell’imponibile ai fini di quest’ultima imposta fa riferimento al valore venale mentre occorre basarsi sui corrispettivi contrattuali per le IIDD. In quest’ultimo comparto il valore venale diventa rilevante solo nella procedura d’accertamento, quale indizio che, corroborato da altri elementi, possa fondare un maggior valore. Insomma, da un lato il criterio opera come modalità legale di determinazione della basa imponibile, dall’altro, invece, serve nella successiva fase di accertamento. Detto così, mi pare, non si fa molta fatica a tenere distinti gli aspetti ed a capire in quali ristretti limiti vada utilizzato il criterio del valore normale. Perché, allora, la Cassazione sta assumendo un atteggiamento diverso? Penso che una risposta, almeno parziale, si potrebbe avere ponendo bene in risalto la specificità dei casi sottoposti alla sua decisione. Infatti, potrebbe esser che in quella data situazione emergano particolarità tali da rendere evidente la ragionevolezza del ricorso a questo criterio forfetario. Quello che non dovrebbe mai mancare, invece, è una congrua motivazione che non potrà, certo, mai essere del tipo: “siccome ai fini dell’imposta di registro si è stabilito questo, allora, la stessa cifra, per forza, deve valere anche ai fini della determinazione del reddito d’impresa”. Ciò che difetta, oggi, in modo grave, in un contesto di fiscalità di massa, ove è importante “fare cassa” il più presto possibile, è il frettoloso recepimento acritico, da parte degli Uffici, di massime stringate, rinvenibili dalla giurisprudenza di legittimità, senza la necessaria ponderazione sul caso specifico oggetto di controllo. Ma anche un’altro ragionamento si può fare: sembra venire in rilievo la necessità di procedere ad una determinazione di tipo presuntivo nei confronti dei piccoli autonomi, anche nella fase di realizzazione di avvenimenti c.d. straordinari della loro vita imprenditoriale. Infatti, i criteri scientifici, proposti con autorevolezza dal Guatri, ad esempio, sono più adatti per le grandi realtà aziendali che non per le piccole. Per un bar, un negozio, un laboratorio artigiano, spesso, si seguono, nella prassi professionale, criteri forfetari che molto si assomigliano a quelli utilizzati ai fini della richiamata imposta di registro: reddito medio degli ultimi tre esercizi, moltiplicato per tre, ad esempio. La necessità di ammettere la prova contraria, intesa in senso molto largo, deve, però essere un principio accolto e condiviso dall’Agenzia delle Entrate. Infatti, il funzionario dovrebbe possedere un’elevata sensibilità valutativa, che spesso non ha: ritornando all’esempio del bar, oggi le licenze si svendono a poche decine di migliaia di euro (è forse alle porte una liberalizzazione) ed il mercato non è più quello di qualche anno fa. Il giovane funzionario che deve trattare la pratica in modo serializzato e piatto sa questo? I capelli grigi, che hanno i capo team, almeno di secondo livello, dovrebbero condurre a prendere delle decisioni più ponderate. Ma questo, purtroppo, ultimamente, avviene sempre meno frequentemente, a causa dei più volte richiamati condizionamenti di budget cui l’Agenzia, in modo sempre più pressante è, negli ultimi tempi sottoposta.

venerdì 11 dicembre 2009

CESSIONE AZIENDA E RATEAZIONE PLUSVALENZA

La prassi professionale, "istintivamente", mi ha sempre portato ad escludere la possibilità di rateizzare in cinque anni la plusvalenza da cessione di azienda se l'imprenditore cessa contestualmente la propria attività. Nell'approfondire alcune tematiche inerenti ho letto, però, che qualcuno la pensa diversamente. L'aspetto è interessante, in quanto potrebbe essere un'opportunità allettante da cogliere nel caso in cui non sia decorso il quinquennio necessario per accedere al regime di tassazione separata. In particolare è stato rilevato che anche se l'imprenditore cessa fiscalmente la propria posizione si avrebbe una sorta di "ultrattività" del regime tributario dei beni relativi all'impresa, che sopravvive alla perdita della qualifica di imprenditore, estendendosi alla facoltà di rateizzare la plusvalenza (in tal senso MICCINESI, PORCARO e STEVANATO, contra BENAZZI e LEO). La tesi mi pare possa essere condivisa anche se, da un punto di vista pratico, presta il fianco a non poche difficoltà. La stessa Amministrazione, attraverso il proprio sistema informatico, riscontrerà, inevitabilmente delle anomalie, rilevando la presentazione in dichiarazione di quadri F e G, nonostante sia stata acquisita in data anteriore la comunicazione di cessazione. Inoltre, sotto il profilo previdenziale è facile immaginare l'insorgere di possibili contenziosi dovuti al fatto che l'INPS, sistematicamente, incrocia i propri dati relativi ai versamenti con i quadri relativi al reddito d'impresa delle dichiarazioni fiscali. Anche in questo caso si avrà un disallineamento della cessazione della posizione previdenziale, antecedente, come detto, rispetto ai periodi d'imposta indicati in dichiarazione. Nonostante la posizione previdenziale sia stata già cessata, l'INPS, probabilmente, avrebbe buon gioco nel dimostrare che il reddito/plusvalenza è stato "prodotto" dall'inprenditore nell'esercizio della propria attività, salvo che la cessione dell'azienda non sia avvenuta in una fase formale di liquidazione, previamente comunicata all'Agenzia Entrate e con previa cessazione di ogni posizione, sia camerale che previdenziale.

GLI INEVITABILI EQUIVOCI DELLA COMUNICAZIONE MEDIATICA

"Meno tasse sui ceti medi..." e più sussidi per i poveri è uno dei
concetti portanti, fra i tanti altri condivisibili espressi
nell'intervento di Alberto Alesina sul sole del 21 agosto 2009. E'
evidente che siamo di fronte ad un'antinomia, cioè di quel particolare
tipo di paradosso che indica la compresenza di due affermazioni
contraddittorie. Per capire meglio ci possono essere di ausilio alcune
semplici considerazioni tipiche della scienza delle finanze (che come
auspica il Prof. Lupi in altra parte di questo sito) dovrebbero anche
servire per spiegare i comportamenti sociali rilevanti ai fini di una
teoria della tassazione.
Se si diminuisce la pressione sui ceti medi, (da intendersi come
quell'agglomera to di contribuenti un poco al di sopra della soglia di
povertà e con redditi non eccessivamente alti, fascia, questa
significativa per l'erario in quanto rappresenta la maggior area su
cui pescare imposte, che identifica, insomma, la parte centrale di una
curva a campana dalla cui semplice osservazione si acclare bene che
ogni manovra fatta sulle ali, povere o ricche, sarà sempre, in termini
di gettito, poco significativa, salvo sortire approvazione o
disapprovazione politica), come dicevo, se si diminuisce la pressione
sui ceti medi, allora, inevitabilmente mancheranno risorse da
destinare ai meno abbienti. Si tratta, quindi, di una ipotesi
scarsamente realistica, soprattutto in un paese quale l'Italia ove
l'entità del debito pubblico e la conseguente rigidità che ne deriva
non permette manovre significative in tal senso, salvo effettuare
quegli interventi, anch'essi politicamente negativi a livello di
consenso, di aggiustamento strutturale della finanza pubblica.

giovedì 10 dicembre 2009

DALL'AUTOLIQUIDAZIONE ALL'AUTOCONTROLLO

Qualcuno, "non ricordo più chi", disse che le rivoluzioni epocali sono
quelle silenziose, che avvengono, cioè, lentamente,
impercettibilemente, senza che nessuno se ne accorga. Il passaggio
dall'imposizione officiosa alla c.d. autoliquidazione del tributo non
è stato, però, così. Diversamente, invece, l'approdo alla
determinazione analitico aziendale: forse nessuno l'avrebbe
lucidamente constatato se non ce lo avesse fatto notare, in modo
alquanto argomentato, il Prof. Lupi. Probabilmente un qualche cosa di
simile potrebbe avvenire, con il dovuto tempo e gradualismo, per
l'autocontrollo, ossia per il verifica del rispetto degli obblighi
formali e sostanziali effettuata dallo stesso contribuente attraverso
soggetti terzi, rispetto all'Amministrazione, da questi delegati. Tale
controllo, mi pare si possa già concludere, si limiterà al "regime
giuridico del dichiarato" in quanto la lotta all'evasione sostanziale
non può che passare attraverso la progressiva consolidazione di regimi
paracatastali di determinazione del reddito, da una parte, e la
formazione, in capo al Fisco, di strutture di intelligence capaci di
approcciarsi alla fiscalità della grande impresa, anche
transnazionale, dall'altra I primi segnali di questo nuovo modo di
procedere si sono avuti con l'introduzione del visto leggero e
pesante, comunque mi pare, sino ad ora, poco gettonato, in quanto
facoltativo. Oggi, invece, con l'avvento obbligatorio della
certificazione dei crediti iva, superiori ad una certa soglia, si
richiede una qualche cosa in più al contribuente: si crea un vero e
proprio "onere" a suo carico (la cui accezione civilistica, mi sembra,
calzi perfettamente). Se egli vuole fruire del credito deve prima
certificarlo, appunto, con l'intervento di soggetti esterni che diano
alla stessa Amministrazione le garanzie sufficenti di un operato
imparziale. I profili di criticità sono diversi: dal costo di questo
servizio alle difficoltà, che così si introducono, all'effettivo
esercizio del diritto di detrazione iva (principio caro, questo, alla
Corte di Giustizia Europea). Comunque quel che qui interessa cogliere
sono i "segnali" di una eventuale futura evoluzione che potrebbe
subire il rapporto fisco - contribuente in tema di contralli, ed al
riguardo non si può fare a meno di constatare che l'Amministrazione,
di fatto, mai potrà, comunque svuotarsi del suo ruolo attivo
concretizzantesi nella, tanto cara, ai classici, "potestà
amministrativa d'imposizione". Panta rem.
Mauro Franchi

RAPPORTI CON L'ESTERO: QUALI ALTRE POSSIBILI VALUTAZIONI?

La legge n. 227/1990 sul monitoraggio fiscale obbliga a compilare il
c.d. quadro W solamente le persone fisiche, gli enti non commerciali e
le società semplici. Nessun adempimento, invece, per le società di
capitali. E' probabile che il "legislatore" di allora abbia pensato
che fossero sufficenti le garanzie derivanti dalla tenuta di una
ordinata, completa e veritiera contabilità. Anche oggi, verificando il
contenuto, ad esempio, del modello UNICO SOCIETA' DI CAPITALI 2009, si
può rinvenire un supplemento d'informazioni, richiesto a tali
soggetti, solo nel quadro FC, avente ad oggetto i rapporti con
partecipate residenti in paradisi fiscali, cui si applica sia la
trasparenza e sia la rideterminazione del reddito secondo il TUIR. In
questi 19 anni si sarebbe potuto fare, invece, di più nella
strutturazione, per gradi, di una serie ponderata di informazioni da
richiedere alle imprese trasnazionali o comunque interessate da non
episodici rapporti con l'estero. A tal fine mi sono sembrate sensate
le proposte avanzate, proprio 20 anni fa, dal Prof. Nuzzo, il quale
auspicava il compleamento dell'informativa di bilancio (ad uso
fiscale) di questi enti. In particolare veniva proposto di indicare
non solo le aree geografiche di operatività ma anche i paesi, così
come si consigliava di richiedere report strutturari nelle
movimentazioni finanziarie da e per l'estero. Ovvio, il tutto "cum
granum salis": senza eccedere nella raccolta di informazioni. Troppi
dati diventano inutili. L'aumento delle competenze dei verificatori
avrebbe dovuto andare di pari passo con l'acquisizione di specifiche
sensibilità, sia di selezione che valutative. Insomma, l'introduzione
di un apposito quadro W, diciamo, ad appannaggio delle società
commerciali e di capitale in particolare. In ultimo, vale la pena
ricordare che l'attuale informativa civilistica di bilancio, già
scarna per le esigenze conoscitive dei soci e dei terzi creditori
appare in modo chiaro ed intuitivo insufficente e non aderente allo
scopo specifico d'indagine fiscale che si muove da altri presupposti
ed ha altre finalità.
Mauro Franchi

DIVIDENDI NON RISCOSSI ED INTERESSI

Come spesso accade nel mentre si lavora, nel mentre si hanno fra le
mani determinate carte, sovvengono determiante tematiche viste
fuggitivamente su riviste specializzate. Ad esempio, com fa
l'Amministrazione a dire che i dividendi non riscossi fruttano
interessi? Esiste, infatti, una delibera a monte che legittima
l'erogazione al socio. Tale atto societario, quindi, costituisce il
titolo da cui sorge il diritto di credito del socio. Se costui, non
esercita il suo diritto non può di certo desumersi la volontà
concludente fra costui e la società (pensando per un attimo che esista
una certa distanza fra le due entità giuridiche), nel senso di voler
procedere alla stipula di un contratto di mutuo. Civilisticamente
sappiamo che il silenzio è insignificativo, salvo che il comportamento
concludente delle parti non sia tale da fare univocamente presumere la
conclusione di un accordo e quindi di un contratto. Il fisco, in tal
caso, non può, mi pare, giovarsi di alcuna presunzione, salvo far leva
su quelle precise, gravi e concordanti che non possono di certo esser
considerate se non con estrema prudenza in primis da parte
dell'Ufficio e poi, se del caso, da parte del giudice,il quale
dovrebbe rispedire al mittente la diversa conclusione eventualmente
tratta in sede di un probabile frettoloso confezionamento dell'avviso
di accertamento.
Mauro Franchi

ENTI ASSOCIATIVI FRA SOSTANZA E FORMA

L'art. 30, al comma 1 del d.l. 185/08, fra laltro, recita:"i
corrispettivi, le quote e i contributi di cui all'art. 148...non sono
imponibili a condizione che gli enti associativi siano in possesso dei
REQUISITI QUALIFICANTI previsti dalla normativa tributaria e che
trasmettano per via telematica..."
Oggi è venuto nel mio studio un vecchio cliente che da una decina di
anni ha cessato la propria attività e da pochi mesi è presidente di un
CIRCOLO ANZIANI. Mi porta lo statuto, è del 1987, non registrato,
hanno il codice fiscale, ma i REQUISITI (FORMALI) QUALIFICANTI non ci
sono. Non hanno scritto, cioè, sullo statuto le clausoline di cui
all'art. 148 ed il foglio di carta, come detto, non è nemmeno
registrato. E' un problema, gli dico. Mi guarda perplesso e vedo che
non sa interpretare bene quello che gli dico. Penso dentro di me a
quella decina di anziani che si ritrovano tutti i pomeriggi al circolo
per giocare a carte. In effetti non so che pesci pigliare: dovrebbero
inviare il modello EAS ma il cod.fisc. è vecchio e non possono
indicare gli estremi di registrazione dell'atto perchè inesistenti. Il
rischio di autodenuncia è elevato. Al contempo se non inviano il
modellino li beccano comunque, visto che il cod. fiscale esiste. Sto
riflettendo, in queste ore come cavare le castagne dal fuoco. Ma non
posso fare a meno di pensare, confesso con molta rabbia, al NIGHT
CLUB, che è ad un Km da qua e che sicuramente è un'associazione
incastonata nell'inneffabile art. 148 e che avrà tutte le carte in
regola per continuare alla grande la sua benemerita attività
associativa!!
Mauro Franchi

IL MANCATO INVIO DEL MODELLO EAS FA PERDERE LA DECOMERCIALIZZAZIONE?

Mi domando se l’ommissione dell’invio del modello EAS, comporterà
veramente la decadenza dai benefici di cui all’art. 148 TUIR, data per
scontata l’effettiva sussistenza dei requisiti. La forma, in questo
caso, prevarrebbe sulla sostanza. La norma, è vero, pone, quale
ulteriore condizione, per rimanere nella c.d. decomercializzazione,
l’onere dell’invio della comunicazione, ma, mi pare di poter dire che,
sottoposta ad un “attento” vaglio di costituzionalità, tale
disposizione non può reggere. Altrimenti sarebbe come dire: mi
comunichi di che sesso sei, se non lo fai allora sei, per forza di
cose, maschio, anche, se in realtà, sei femmina. Insomma, mi pare che
un’interpretazione ragionevole della norma sia quella di ammettere
sempre la prova contraria, e con una certa larghezza, da parte
dell’Ente.
Mauro Franchi

FISCALITA' DI MASSA E PONDERAZIONE DELLE SINGOLE POSIZIONI

Penso che nella gestione dei grandi numeri non sia possibile giungere
a delle ponderazioni personalizzate effettive se non in modo alquanto
episodico e, quindi, statisticamente poco significativo. Le banche
dati, già esistenti fra l'altro, della SOGEI, che assommano le
informazioni più varie, fra cui in particolare: dati contabili,
investimenti, disinvestimenti immobiliari, finanziamenti stipulati con
atto pubblico, spese per oneri deducibili, possesso di beni mobili
registrati, andrebbero integrate, in modo effettivo, con altri dati,
già on line in capo all'amministrazione, quali assicurazioni,
monitoraggio valutario, anagrafica conti bancari, anche se, per
quest'ultima, il dato fa solo potenzialmente parte dell'amplissima
base dati teorica a disposizione dell'amministrazione. E' ovvio che
avere troppe informazioni è come non averne nessuna, lo sa bene,
questo, chi si occupa di organizzazione. Daltra parte non occorre
confondere i concetti: un conto è avere un ampio bacino d'informazioni
da cui attingere, un altro, invece, è avere davanti un cruscotto di
informazioni previamente estrapolate, con un criterio guida, dalla
base dati di riferimento. Il passaggio delicato è questo, saper
estrapolare il dato significativo per quelle posizioni che
significativamente vanno valutate, tenendo presente che se è pur vero
che l'incrocio di dati può far emergere una posizione apparentemente
anonima, ancor più profiquo potrebbe essere il "metter relativamente"
da parte quelle posizioni che posso catastizzare per concentrare,
invece, l'analisi d'intelligence su specifiche situazioni ritenute
teoricamente più a rischio. Come insegna il Prof. Lupi, le analisi sul
patrimionio, inteso in senso lato, sono alquanto complesse perchè la
relazione del medesimo con la sua fonte può facilmente perdersi, sia a
causa del tempo e sia a causa delle modificazioni soggettive relative
alla sua imputazione o titolarità (vere, simulate o interposte che
siano). Perciò un trattamento informatizzato di miliardi di dati può
essere ed è senz'altro utile ed indispensabile ma a patto che non si
allinei su una gestione della fiscalità di massa che porta a spalmare
le informazioni, in modo piatto e quindi finalisticamente inutilmente,
su milioni di contribuenti.
Mauro Franchi

VA RIPENSATA LA LOGICA DICHIARATIVA?

Il Prof. Raffaello Lupi, sul sito della FONDAZIONE STUDI TRIBUTARI, ha affrontato,
incisivamente, il tema relativo ad una possibile riforma della
dichiarazione, che potete leggere al seguente link:

http://www.fondazionestuditributari.com/index.php?option=com_content&...


Questo intervento mi ha sollecitato le seguenti riflessioni:
I dati che annualmente la dichiarazione richiedere di ripetere,
inutilmente, sono minimali, tutto il resto, invece, rappresenta
informazioni nuove, principlamente contabili. Ovvio che se per il 95%
dei contribuenti italiani, di fatto, si è capito che la contabilità
non serve a misurare la loro capacità economica, la quale potrebbe
essere più efficacemente determinata guardando alle loro
caratteristiche strutturali, allora converrebbe abbandonare il sistema
di dichiarazione, per come oggi è concepita sui redditi d'impresa e
lavoro autonomo, per istituire, come dice il Prof. Lupi, una sorta di
archivio informatico aperto sulle caratteristiche, appunto,
strutturali. Tutto ciò andrebbe, però, attuato a seguito di una previa
riforma, seria, dei criteri di determinazione del reddito dei piccoli,
che anzichè impastoiarsi sul versante della prova, dovrebbe, come
altrove, diventare metodo di determinazione del reddito. Gli strumenti
per fare questo ci sono, ed anche collaudati, manca la volontà
politica. Il tutoraggio, istituto, mi pare di derivazione anglosassone
(nato, quindi, in un contesto molto differente dal nostro), andrebbe
applicato, veramente, alla grande impresa e non solo, quindi, scritto
sulla carta, come periodicamente, invece, avviene. Diversamente,
pensare ad una riforma della dichiarazione a disciplina sostanziale
invariata, visti i grandi numeri che, comunque, renderebbero sempre
perdente l'amministrazione, porterebbe, probabilmente, ad un nulla di
fatto.
Mauro Franchi

LA MEDIAZIONE FRA DIVERSE ESIGENZE

L'Agenzia delle Entrate deve, necessariamente, contemperare esigenze
diverse, essendo il braccio di trasmissione del Ministero, che mette
la faccia nei rapporti col contribuente. In effetti, sotto questo
profilo, la puntualizzazione di Theplaner, chiama a riflettere, anche
se, a dire il vero, non penso che, se fosse direttamente il Ministero
ad interfacciarsi con la vasta platea di contribuenti la cosa sarebbe
molto diversa: chi è chiamato a pagare le imposte non fa certo queste
distinzioni. Al contempo, come rileva, in questi giorni Raffaello, sul
sito della FONDAZIONE STUDI TRIBUTARI, il "cittadino" è bersagliato da
messaggi mediatici spesso opposti fra loro: qualche mese fà l'Agenzia/
Ministero facevano sapere che gli strumenti fiscali per il pagamento
soft delle imposte potevano anche essere utilizzati per lenire gli
effetti di scarsa liquidità dovuti alla crisi. Non a caso, il governo,
con uno degli ultimi provvedimenti "anticrisi" aveva ritoccato al
ribasso le sanzioni dovute a seguito di ravvedimento operoso, con
l'evidente finalità politica di porre un ultriore strumento, seppur
parzialissimo, per fronteggiare le difficoltà economiche. Il
messaggio, quindi, è passato, per cui era inevitabile che le entrate
di novembre fossero in calo: riduzione degli acconti, uso "improprio?"
dello strumento del ravvedimento, recessione economica, non potevano
far altro che causare una diminuzione delle entrate. A fronte di tale
scenario, ecco allora, che il Governo (Tremonti)/Ministero e
conseguentemente Agenzia, oggi, non possono far altro che porsi alla
platea dei contribuenti col messaggio, opposto, quanto alla filosofia
di fondo, tendente a mettere sull'allerta i medesimi su di un uso
esagerato dell'auto sospensione/riduzione delle imposte. Sono messaggi
con un c.d. effetto annuncio: i controlli, concreti, saranno
pochissimi, ma servono ad ottenere un tendenziale adeguamento a
cascata. Per completare il discorso, infine, non si può fare e meno di
constatare che, per il buon fine dell'operazione, occorre che l'altro
"ingranaggio" dell'apparato di trasmissione dell'informazione fiscale,
cioè gli intermediari, in particolare, facciano la loro parte: nel
mentre valutano una posizione debitoria fiscale, per il cliente
difficile da sostenere finanziariamente, consiglino al medesimo,
"l'estrema pericolosità" di non pagare sperando, nella speranza, poi,
di regolarizzare il tutto con un successivo ravvedimento.
Mauro Franchi

PEX - PARTECIPAZIONI, PERCHE' DIFFERENZIARE IL REGIME?

Di seguito al post precedente, due parole si possono spendere, ulteriormente, per
dire anche che non ha molto senso vincolare l'applicazione del regime
PEX alla iscrizione dei titoli fra gli immobilizzi finanziari, anzichè
nell'attivo circolante. A differenza delle altre condizioni, che
sembrano pertinenti (società senza impresa od allocate in paradisi
fiscali), tale distinguo sembra essere formalistico, tanto più che i
dividendi, come detto, non soggiacciono a tale distinta disciplina. La
natura economica di una partecipazione non cambia di certo in base
alla allocazione di bilancio, ed anche se questa vorrebbe esprimere la
rappresentazione di un bene, la partecipazione, appunto, maggiormente
"fluida", da un punto di vista negoziale e quindi maggiormente
soggetta, sia in positivo che in negativo, agli effetti della
specualzione, non si può certo giungere a concludere che cambi in modo
drastico, se così si può dire, il DNA, gli ingredienti di base, utili
per la sua valutazione, che sono poi sempre questi: patrimonio +
avviamento + gap da forza contrattuale.
Mauro Franchi

PEX E REGIME DIVIDENDI

Devo dire che la soluzione del doppio regime partecipazioni (esenti e
non) rispetto all'unico regime dividendi (sempre esclusi al 95%) mi
lascia poco soddisfatto. Nel senso che si percepisce a pelle, senza
troppi ragionamenti, che qualche cosa potrebbe non funzionare.
Sembrano, cioè, sussistere delle possibili incongruenze: salti
d'imposta o duplicazioni. Soprtattuto quando le operazioni avvengo fra
un soggetto che applica un regime (legittimamente) verso una
controparte che (sempre legittimamente) applica il regime
opposto.Tutto chiaro il discorso dividendi: si evita un'imposizione a
cascata fintanto che questi circolano nell'ambito di soggetti IRES.
Per l'esenzione/indeducibilità delle plus/minusvalenze su
partecipazioni, invece, mi sembra che il discorso si complichi.
Infatti, un poco di razionalità la si raggiunge se si giustifica tale
regime nel senso di vietare la deduzione di perdite di gruppo,
attraverso lo strumento della svalutazione di partecipazioni, visto
che sono stati introdotti i nuovi regimi del consolidato e della
trasparenza (anche se è ovvio constatare che questi due regimi
opzionali non possono esaurire in se la disciplina della materia).
Quando, poi, si tenta di giustificare la PEX dicendo che con le
partecipazioni si monetizzano i dividendi della parteicpata, penso di
pecchi in eccesso. Infatti, nella valutazione di una partecipazione,
partendo dagli elementi patrimoniali, per aggiungervi l'eventuale
avviamento o badwill, risulta evidente che la componente dividendo
futuro, giustifica solo una parte del relativo prezzo
Mauro Franchi

mercoledì 15 luglio 2009

SCUDO FISCALE: il miele (ipocrita) di un dolce rientro

Il tema dello scudo fiscale assomma in se vari aspetti: di diritto tributario e di finanza pubblica, in particolare. Ho letto che i capitali all'estero sarebbero stimati in circa 550 miliardi di euro. Il debito pubblico è circa al 118% del PIL, ritornando, così, ai livelli degli anni '93-94. Da allora decrebbe, grazie alle manovre che tutti conosciamo, per poi tornare a ricrescere, in modo preoccupante, dal 2003 in poi. E' chiaro che le ragioni sono molteplici: l'abbandono degli aggiustamenti strutturali, la crisi economica, ecc. Quest'ultima, con il crollo del PIL, (-5,9%) rende tutto ben più problematico: il debito aumenterà di forza propria (interessi) ed essendo di molto al di sopra della parità, tenderà, di per sè, a "scappare" rispetto ad un possibile drenaggio di liquidità privata da imposizione fiscale che, a parte l'evasione, visti, appunto, i dati macroeconomici, si appresta a palesare, soprattutto prossimamente (5/8), forse, un sensibile calo rispetto all'anno precedente. La stagnazione di lungo periodo che ci spetta (Kondratieff) può portare anche ad immaginare scenari non semplici (per usare un eufemismo) da risolvere. In altri tempi non sarebbe stato peregrino pensare a manovre di finanza straordinaria. Ecco che allora il rientro dei capitali può esser un poco utile al caso. L'esperimento precedente (2002) è andato oltre le più ottimistiche aspettative (con particolare irritazione dei vicini di casa elvetici): danaro fresco rimesso nel circuito economico nazionale, con possibili effetti leva sull'economia, con investimenti in titoli, soprattutto pubblici, col ritorno finanziario di 5/10 milioni di euro, dalla sostitutiva, per l'erario, può giustificare il sacrificio del principio dell'equità tributaria. Ancora una volta il diritto tributario (cioè la norma positiva, non quella teorica immanente che si sta cercando) si dimostra estremamente sensibile a queste determinanti macroeconomice. Al contempo occorre chiedersi come si sia costituita tale somma (550 miliardi - fra l'altro al netto del precedente rientro). I soldi all'estero non li hanno certo portati i fornai, i meccanici o le parucchiere ma i finanzieri, banchieri e grandi imprenditori (tralasciamo dall'analisi la malavita organizzata) i quali, magari, non hanno fatto rientrare profitti realizzati con delocalizzate operative (o non operative) estere, oppure hanno realizzato arbitraggi con transfer price ed anche guadagnato capital gain con strutture opache. Territorio idoneo per l'alta consulenza fiscale che certo avrebbe buon gioco in una partita contenziosa, come qualche post addietro il Prof. Lupi aveva fatto notare. Chissà, forse il tutoraggio, alla luce di questi numeri, che fanno di certo impallidire i piccoli commercianti ed artigiani, può avere un senso. Ed allora più che il bastone dell’equità fiscale (in questo caso inconcludente) meglio il miele (ipocrita) di un dolce rientro.

venerdì 10 luglio 2009

LE DETERMINANTI 20: IMPOSTE INDIRETTE E BASE IMPONIBILE

Mi sto domandando come debba essere determinata la base imponibile
nelle imposte indirette (come l'irap), posto che nelle dirette si può
misurare, appunto direttamente, la stessa entità economica oggetto
d'imposizione.
Non è semplice rispondere a questa domanda, se si abbandonano le comode
visioni prese a scatola chiusa, cominciando a considerare, ad esempio, come
il più delle imposte presenti nell'ordinamento siano dirette (fra cui l'iva,
registro ecc) e non indirette (fra cui, come detto l'irap). Per queste
ultime occorre misurare un qualche cosa che sta in posizione de relato con
la capacità contributiva, rischiando, perciò di sconfinanre molto presto in
criteri estremamente soggettivi ed arbitrari. L'irap (bell'imposta da
laboratorio) ne è un esempio: scelta soggettiva quella di misurare un valore
aggiunto, così come soggettive e con poco significato logico le varie
deduzioni introdotte nel tentativo d'aggiustare un poco fondato criterio di
determinazione, appunto della di lei base imponibile).

LE DETERMINANTI 19: COERENZA FRA LE DIVERSE IMPOSTE

Se riferita al singolo contribuente, la capacità contributiva non può essere che una, mentre sono plurime le imposte che diverse volte attingono alle di lui risorse economiche. Occorre allora, che coerenza vi sia non solo nel singolo tributo ma anche complessivamente fra la galassia complessiva delle imposte che formano un c.d. sistema tributario. Per tentare di dare una nuova chiave di lettura a mio parere è bene cercare di comprendere come vi debba essere linearità fra:

- ricchezza;

- sua formazione, manifestazione e circolazione;

- capacità contributiva;

- presupposto;

- base imponibile.

Dal che si discende immediatamente alla classificazione delle imposte fra dirette ed indirette, il che è tutt'altro che una classificazione storica senza scopo ma, bensì, una sorta di prova del nove per verificare la coerenza finale di una imposta e delle imposte nel loro insieme, così come infine la loro giustificazione dal punto di vista costituzionale.

Ritengo che la classificazione tutt'ora in voga non sia corretta, esprimendosi con ciò una sorta di pigrizia accademica nell'accettare uno status quo ritenuto immodificabile.

A mio parere sono:

IMPOSTE DIRETTE

IRPEF-IRES sul reddito prodotto/entrata

IVA sul reddito consumato

ACCISE sul reddito consumato

IMPOSTA DI REGISTRO-IPOTECARIE E CATASTALI sulla ricchezza negoziata

IMPOSTA SULLE SUCCESSIONI E DONAZIONI sulla ricchezza trasferita

ICI sul valore degli immobili posseduti

IMPOSTE INDIRETTE

IRAP: sull'organizzazione in quanto indice di potenzialità economica;

BOLLO: traffico giuridico quale indice di capacità contributiva.

Mi fermo.

Questa classificazione, che farà sorridere i più, deriva in realtà dal considerare quale entita univoca il concetto di REDDITO che come più voltre detto può essere prodotto e CONSUMATO. Il CONSUMO, quindi, non è un indice indiretto di ricchezza ma, piuttosto, lo stesso reddito che vine, per l'appunto speso.

...continua...

giovedì 2 luglio 2009

LE DETERMINANTI 18: COME TASSARE 5: presupposto ed accertamento

Sotto un altro profilo andrebbe messa bene in luce la differenza che
sussiste fra le seguenti tecniche impositive:
- quelle che stabiliscono un presupposto d'imposta coincidente con
l'entità economica tassata;
- quelle che stabiliscono un presupposto d'imposta che è solo
l'occasione, indiretta, per tassare l'entità economica ad esso
collegata.
E' evidente lo sforzo maggiore, per il legislatore, interprete e
contribuente, derivante, nel secondo caso, sia dalla concreta
individuazione della materia imponibile che dalla sua misurazione.
Viene da se, però, che il presupposto è in funzione dell'accertamento ed il
fatto che esso sia diretto od indiretto dovrebbe dipendere dallo
stabilire previamente quale sia il momento più opportuno per
intercettare la materia imponibile. Infatti, se è bene non lasciarsi
sfuggire l'occasione del compimento, ad esempio, di un atto giuridico,
segnalante il trasferimento di un bene, allora, questo, potrà,
convenientemente, assumere la funzione, appunto, di presupposto.
Perciò il presupposto dovrebbe, in primis, per chiarezza, descrivere
la sussistenza della materia imponibile, definendola, in capo al
contribuente ma, se ai fini dell'accertamento può essere più
fruttuoso, allora sarà maggiormente opportuno assumere, come tale, un
fatto occasionato dal modo di essere o di manifestarsi della stessa
materia imponibile; altrimenti, come spesso accade il presupposto può
limitarsi a definire il modo di essere della materia imponibile e,
successivamente, norme varie, in tema di procedura accertativa,
cercheranno d'intercettarla. Ma, un presupposto intelligentemente
formulato può permetter di cogliere due piccioni con una fava: nel
momento stesso di definizione della materia imponibile la s'intercetta
anche.

martedì 30 giugno 2009

LE DETERMINANTI 17: COME TASSARE 4: le anomale imposizioni sulle entità economiche intermedie

In fondo, ogni entità economica è pur sempre misurabile. Occorre, ovviamente, coerenza e razionalità nell’individuare una convenzione di misurazione ma questo non esclude che ciò si possa fare. E’ l’individuazione dell’oggetto della misurazione (strumentale all’imposizione) che deve reggere alla prova dei fatti. Come ben sappiamo, quindi, l’entità economica esprimente la c.d. materia imponibile deve rappresentare vera ricchezza, attuale e, soprattutto, effettiva. Il patrimonio ed il reddito (sia esso reddito entrata oppure reddito prodotto e, financo, reddito consumato) posseggono, mi pare, tale fondamentale caratteristica.

Non così, invece, le c.d. “entità economiche intermedie”, ciò, che, in buona sostanza, può essere definito proto reddito oppure proto patrimonio. Queste entità hanno sì la caratteristica dell’economicità ma sono in via di formazione: non sono ricchezza vera, non sono effettive, mancano, cioè, di quel requisito voluto da sempre, mi pare, dalla Consulta. Prendiamo, ad esempio, l’IRAP, non per criticarla, ancora una volta, ma quale oggetto d’indagine. Il presupposto è l’organizzazione. La frase è semplicistica ma rende. Quale è la materia imponibile, in questo caso, esprimente capacità contributiva, sottoposta all’ablazione fiscale a titolo d’imposta. E’ bene, al riguardo, al fine di rimanere ancorati con i piedi per terra, che l’imposta toglie ricchezza, concreta e non ipotetica, al contribuente da destinare alla casse pubbliche. Ricchezza, appunto. Orbene, l’organizzazione non è ricchezza ma un suo “ingrediente”, un c.d. fattore della produzione, il ruolo cioè dell’imprenditore che combina gli altri fattori della produzione (capitale e lavoro, come insegnano gli economisti classici). L’organizzazione (l’imprenditore) concorre a produrre la ricchezza finale (reddito o patrimonio) ma di per sé non può essere considerato materia imponibile, proprio perchè l’imprenditore (l’organizzazione) è solamente un fattore della produzione, non il risultato finale, nonostante si sia individuata una, più o meno fondata, convenzione per misurarne, in qualche modo, la dimensione economica. Nell'irap, insomma, vale, purtroppo, il principio: paghi in quanto imprenditore, indipendentemente dalla ricchezza che produci.

lunedì 29 giugno 2009

LE DETERMINANTI 16: COME TASSARE 3: coerenza fra ricchezza e sua misurazione

Riflettendo sulla tematica oggetto di questo intervento il pensiero corre, frequentemente, all'oggetto economico dell'imposizione, insomma, a quell'entità economica che dovrebbe fondare la c.d. capacità contributiva. E' fuori dubbio che, come già detto, il reddito ed il patrimonio sono, allo stato attuale, i fenomeni economici di più facile apprensione. Ed è lecito dubitare che, anche in prospettiva, possano essere superati da altre, altrettanto convincenti, convenzioni di misurazione contabile. Data una determinata entità economica ne consegue una tecnica di determinazione/quantificazione ai fini fiscali, cioè la sua misurazione (altrimenti detta, base imponibile). Questi sono i due momenti cardine del fenomento impositivo:

- individuazione dell'entità economica che concretizza ed, al tempo stesso, fonda la capacità contributiva;

- sua misurazione al fine di applicarvi l'aliquota d'imposta per "ablarne" quota parte da destinare coattivamente alle entrate pubbliche (asservite alle correlative spese).

Il secondo momento, quindi, si pone quale complemento, a completamento della dinamica strutturale d'imposta e deve essere coerente con l'oggetto economico di misurazione.

Si potrebbe, quindi, concludere, approssimativamente che, se l'entità economica è patrimonio questa va misurata con metodiche differenziali del tipo "attivo - passivo", mentre se essa è di tipo reddito, la metodica dovrà essere, per lo più "ricavi - costi", oppure "entrate - uscite". La misurazione, infine, deve essere la più oggettiva possibile così come l'entità economica misurata dovrà possedere l'imprescindibile requisito della effettiva quantificazione monetaria.

mercoledì 17 giugno 2009

LE DETERMINANTI-15: COME TASSARE 2: l'autonomia dei principi tributari

Il punto critico, da far chiaramente emergere, nell’ambito di un dibattito focalizzato a porre in evidenza la supposta sussistenza di autonomi principi, propri del diritto tributario, riguarda, appunto, come, i concetti mutuati da altre “scienze” giuridiche od economiche ma non solo, possano trovare un proprio specifico, più che autonomo, significato nell’ambito della materia fiscale.

Il punto di frattura ed, al tempo stesso, anello di congiunzione, rappresentato da queste seconde logiche di coerenza, trae la propria genesi dalle presupposte caratteristiche attribuite alla norma tributaria dagli effetti che essa produce a livello macroeconomico e che consistono, come abbiam visto, non solo nel procurare un’entrata allo stato, così come favorire la stabilizzazione, lo sviluppo e la redistribuzione del reddito ma, anche, causare possibili conseguenze sul fronte dell’evasione, elusione, traslazione, ecc.

Proprio da questi presupposti, specifici della materia finanziaria, che ben pongono in evidenza la duplice finalità insita nella norma tributaria (che consiste, appunto, da un lato nel sottoporre ad imposizione un determinato presupposto d’imposta, e, dall’altro, procurare quell’effetto conseguenziale di manovra economica voluta dal potere politico), si trae giustificazione, nel rispetto dei limiti posti dalla costituzione, di quegli adattamenti che le metodiche, mutuate da altre discipline, devono subire nella materia tributaria (bilanciamento fra precisione, semplicità, certezza, ecc) e che molto spesso, ad una superficiale analisi, sembrano stridere proprio con quei teorici principi da cui traggono, appunto, origine.

La sussistenza di autonomi principi di diritto tributario, rinviene, quindi, per la sua maggior parte, giustificazione, da questa ricostruzione / ricognizione del fenomeno finanziario.

Solo ora, a mio parere, cioè dopo aver indagato previamente concetti, macro economici, di economia della finanza pubblica, di diritto finanziario, si può cogliere, con maggior compiutezza, la particolarità della norma tributaria. Chiave di lettura, questa, che si pone, a sua volta come premessa chiarificatrice degli ulteriori sviluppi, principalmente giuridici, dell’analisi del fenomeno finanziario – tributario.

lunedì 15 giugno 2009

LE DETERMIANTI-14: COME TASSARE 1 - introduzione

Nel trattare questa fondamentale tematica del “come tassare” si dischiude la porta a quell’ampio settore, oserei dire determinante, delle c.d. “ seconde logiche di coerenza” del diritto tributario (essendo le “prime”, come detto rinvenibili dalle, più volte richiamate, classiche tematiche, proprie della scienza delle finanze). Il “come tassare”, è inevitabile, si avvale del rimando alle elaborazioni di altre discipline, contigue e complementari al diritto tributario: in primis la ragioneria (per la determinazione dei redditi d’impresa) e l’estimo (per la determinazione dei redditi fondiari). Il riferimento alle metodiche di tali materie non può essere, però, effettuato in modo asettico ed acritico. Le logiche, proprie del diritto tributario, ne impongono un riadattamento che tenga conto di quelle necessità tipiche nella gestione statuale dei tributi, fra cui in ordine d’importanza una corretta contemperazione fra le opposte esigenze di equità, precisione, certezza, efficienza e semplicità, come ben approfondito dal LUPI.

venerdì 12 giugno 2009

LE DETERMINANTI-13: RIEPILOGO

Prima di affrontare una breve riflessione sulla "determinante" relativa al COME TASSARE, dischiudente, a sua volta, la porta sull'ampia tematica del quelle che chiamo "seconde logiche di coerenza", direttamente influenzanti il diritto tributario, mi pare opportuno effettuare un breve riepilogo di quanto fino ad ora esposto:

- le moderne esigenze finanziarie portano a considerare il bilancio dello stato, su cui si scaricano le c.d. opzioni politiche di primo livello, non solo quale mero strumento di gestione delle entrate e delle spese ma anche un potente mezzo di politica economica volta alla redistribuzione del reddito, allo sviluppo e stabilizzazione dell'economia;

- la scienza delle finanza, sul fronte delle entrate, in particolare, ben descrive quei particolari effetti delle imposte consistenti nell'evasione, sic et simpliciter, nella evasione da elusione, erosione, rimozione, ammortamento e traslazione dell'imposta, di cui un saggio legislatore fiscale deve tener conto al fine di normare in modo, per quanto possibile, solido e perequato il sistema tributario;

- l'opzione politica di secondo livello, conduce, infine, ad affrontare concretamente l'oggetto della tassazione, che sempre con l'usilio della scienza delle finanze, altrimenti detta economia della finanza pubblica, porta a dover risolvere previamente, alcuni fondamentali quesiti, costituenti le c.d. "prime logiche di coerenza": chi, che cosa, perchè, quanto, dove, quanto ed, infine, appunto, COME TASSARE.

LE DETERMINANTI-12: QUANDO TASSARE

La necessità umana, in ogni campo o settore della sua attività, di sincronizzazione degli avvenimenti, porta, inevitabilmente, a cadenzare ciò che in realtà, se ben si presta attenzione, si manifesta come un unicum divenire, e questo anche in campo tributario. Quando tassare? Quando si manifesta quel particolare fatto che viene, dalle singole leggi fiscali, definito presupposto d'imposta. Per i classici ciò avvalora la teoria dichiarativa: gli adempimenti successivi del contribuente fotografano tutti quegli accadimenti, a rilevanza impositiva, racchiusi e compendiati in quella particolare frazione temporale definita periodo d'imposta, perlopiù coincidente con l'anno solare. Unicum, si è detto: ed allora paiono ingiustificate, da un punto di vista teorico formale, anche se capibili dal lato pratico, le varie limitazioni afferenti le misurazioni di quei fenomeni economici che oltrepassano l'ambito temporale di compendio, quali ad esempio, i limiti al riporto delle perdite che, fra l'altro, possono solo essere conteggiate in detrazione di redditi futuri e non passati. Si pensi, al riguardo, ad una perdita, rilevante, realizzata in sede di chiusura attività, che, di fatto, diminuisce ed annulla redditi che hanno trovato imposizione in precedenti esercizi. Le necessità del moderno stato, pachidermicamente cresciuto nei bisogni finanziari ha, poi, reso inevitabile il ricorso alle c.d. anticipazioni d'imposta, in corso d'esercizio, cioè ancor prima che sia compiuta, definitivamente, la misurazione economica del presupposto d'imposta. Finalità agevolative dovrebbero, infine, portare a ritenere auspicabile una mitigazione della tassazione nella fase d'avvio, o di start up, di talune iniziative imprenditoriali o di lavoro autonomo, specie se condotte da giovani che, invece, vengono penalizzate proprio dal, talvolta perverso, meccanismo delle anticipazioni d'imposta.

giovedì 11 giugno 2009

LE DETERMINANTI-11: DISCRIMINAZIONE QUALITATIVA

Si può notare, solo in apparenza, un trade off fra la puntuale ricerca della sistemizzazione dei criteri di determinazione della capacità economica, da una parte, e la fase d’accertamento, dall’altra.
Infatti, si insiste molto sulla necessità di stabilire corretti principi giuridici di misurazione dando, però, molto spazio alla prova presuntiva, soprattutto nella determinazione del reddito dei piccoli autonomi.

Ampio approfondimento viene dedicato alla prova ed al particolare atteggiarsi che essa assume in campo tributario: l’empirismo, il probabilismo ed il ruolo dell’interpretazione nel giudizio sul fatto.

Ritengo, però, che, per completare l’analisi, dovrebbe essere posto nel giusto rilievo anche il c.d. principio della “discriminazione qualitativa della capacità economica”.

Gli studi, ed il sistema positivo, si sono troppo, se non esclusivamente, appiattiti sull’aspetto quantitativo (con i miraggi utopici, irrealizzati, della personalità e progressività).

Il TUIR discrimina solo formalmente i redditi (salvo l’eccezione di quelli fondiari).

I redditi d’impresa (è ovvio constatarlo), ad esempio, non sono tutti uguali e la loro discriminazione qualitativa si palesa come una necessità giuridico sistemica, dando, ciò, maggior fondamento ad un diverso regime di determinazione – prova dei medesimi, come sopra detto.

La discriminazione qualitativa permette allo studioso di percepire meglio i fenomeni tributari: dall’imposizione all’evasione ed, infine, all’accertamento.

Si possono intendere con miglior cognizione di causa la sussistenza d’imposte sostitutive, così come la tassazione di favore di taluni cespiti economici, oppure, ancora, l’introduzione d’imposte cedolari disancorate dalla globalità dell’imposizione personale.

E’ ovvio che le finalità che in concreto guidano tal discriminazione qualitativa possono essere politicamente le più varie (con un notevole, eppur legittimo, influsso di finalità extrafiscali).

Tutto mantiene un suo valido fondamento anche alla luce del 53 Cost. il quale si “limita” a statuire solamente che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva”...e non si potrà di certo dire che attuando il principio della corretta discriminazione qualitativa dei redditi si viola il principio della progressività, anzi è vero l’opposto, infatti:

violando il primo (discriminazione) si violano contemporaneamente sia quest’ultimo (progressività) che quello, ancor più basilare, della capacità contributiva.

E tal discriminazione, per operare compiutamente, deve essere concretizzata oltre che all’atto di determinare l’aliquota, ancor prima nel momento di calcolo della base imponibile, così come, infine, nella fase d’accertamento.

LE DETERMINANTI-10: DOVE TASSARE

L'elemento spaziale, in ambito finanziario e tributario si colora, principalmente, di tinte prettamente giuridiche, pur essendo queste una conseguenza logica anche di un ampio dibattito, estremamente attuale, riguardante l'architettura accentrata o decentrata del sistema fiscale. Tinte prettamente giuridiche in quanto la potestà legislativa ed impositiva tributaria non può che esplicarsi nell'ambito del territorio dello stato ma, avendo quali referenti soggettivi coloro che realizzano presupposti impositivi, ecco che possono venire in rilievo anche fatti che hanno avuto la loro genesi non solo nello stato ma anche all'estero, purchè riferibili ai soggetti sottoposti alla potestà fiscale domestica. Viene in rilievo, poi, la tematica della mobilità internazionale della ricchezza così come le agevolazioni territoriali, con conseguenti discriminazioni impositive, seppur, per quanto riguarda il nostro continente, ammesse eccezionalmente secondo la recente normativa europea. L'elemento soggettivo-territoriale, componente essenziale dello stato, condiziona, poi, le scelte politiche, come attualmente, riguardanti la struttura accentrata o decentrata della finanzia pubblica. E' ineludibile il fatto che, seppur si voglia perseguire una correlazione mirante ad aumentare l'efficacia ed efficenza della globale architettura del sistema di finanziario, esso deve costantemente ricondursi ad unità, sia per ragioni giuridiche (con il venire in rilievo dei principi costituzionali di solidarietà ed uguaglianza che sono nientaltro che delle protonorme del principio di capacità contributiva), sia pratiche (in quanto un sistema frastagliato e non coordinato altro non può che portare all'effetto opposto rispetto a quello voluto: l'ingestibilità, l'inefficaciea e l'inefficenza).

lunedì 8 giugno 2009

LE DETERMINANTI-9: QUANTO TASSARE

Mi pare che, prima di affrontare il tema centrale relativo al COME TASSARE, occorra brevemente soffermarci sull’altrettanto importante e previo aspetto del QUANTO TASSARE.
E’ ovvio, il quantum condiziona il come ed il chi tassare, ed è diretta conseguenza dei condizionamenti di finanza pubblica. Il fabbisogno finanziario e gli obbiettivi tradizionali e di finanza funzionale, pesantemente incidono sulla determinazione del livello di tassazione.
Varrebbe la pena riflettere sul fatto se veramente l’aspetto quantitativo finanziario possa incidere sul momento qualitativo del rapporto tributario, cioè sulla determinazione giuridica della capacità economica.
E’ presto detto: no! In quanto la determinazione della capacità economica sta oltre: gli aspetti quantitativi non devono portare a distorcere i corretti criteri di misurazione del reddito, del patrimonio, del consumo, ecc.
Di fatto, purtroppo, una lettura realistica del fenomeno tributario – finanziario, porta ad una conclusione diversa: le necessità finanziarie, la mancanza di una solida teoria tributaria radicata, la fretta, l’approssimazione dell’azione di governo e della conseguente diramazione ministeriale, spesso concretizzantesi nella necessità di assumere provvedimenti caratterizzati da bassa trasparenza ed elevata viscosità, portano all’introduzione di divieti di deduzione ed altro poco giustificabili da un punto di vista costituzionale, nonostante le plurime pronunce della Consulta facenti leva sulla discrezionalità del legislatore.

giovedì 7 maggio 2009

LE DETERMINANTI 7: COSA TASSARE

Continuando nell'analisi del fenomeno tributario, rimanendo nella fase dell'indagine riguardante le scelte immediatamente dipendenti dalla scienza delle finanza, sottostanti agli influssi dell'opzione politica, che chiamo di secondo livello, occorre prendere in considerazione, brevemente, la tematica relativa al che "cosa tassare". La risposta, a tale quesito, non può che essere relativa al contesto storico ed economico. Tradizionalmente si considera quale oggetto di tassazione l'entità economica che si identifica nel reddito, patrimonio e consumo. Recentemente, però, basti pensare alla vicenda IRAP, i connotati di, quasi, oserei dire, immediata percezione oggettiva, lasciano spazio ad una concezione più sfumata (l'organizzazione, ad esempio) la cui quantificazione può essere estremamente oponabile, da un punto di vista logico, prima che giuridico. La giurisprudenza, anche costituzionale, pare, ad una prima analisi, non avere ancora maturato una chiara giusitificazione delle proprie decisioni. Certo è che, seppur il concetto di capacità contributiva, sempre di più sta assumendo connotati ampi, esso non può sconfinare nell'indeterminazione, nella congettura, nell'ipotesi. Occorre ancorarlo ad un qualche cosa di concreto. Insomma come dice un "vecchio" Maestro qua a Parma: "son sempre questioni di portafoglio".

LE DETERMINANTI 6: PERCHE' TASSARE

Una domanda che previamente bisognerebbe porsi, prima d'addentrarsi nell'analisi del fenomento tributario, è la seguente: perchè tassare? In effetti tale quesito, che in prima battuta può apparire ingenuo od inutile, ci porta a riflettere sul fatto che oggi il fenomeno fiscale è talmente connaturato alla società in cui viviamo che è stato giustamente osservato che lo stato attuale, più che di diritto, può considerarsi stato tributario. La tassazione, cioè, è un aspetto ontologico delle moderne società. Lo sviluppo delle funzioni pubbliche e del c.d. wellfare state, con il fondamentale principio di solidarietà, riconosciuto, in pratica, da quasi tutte le recenti carte costituzionali, ha posto in rilievo l'aspetto tributario quale funzione fondamentale. Evidentemente non sempre è stato così nel corso dei secoli: come è stato ben narrato: i bottini di guerra, le imposizioni alle popolazioni conquistate (alle varie tribù, da qui, infatti, il termine tributo), e la destinazione alle esigenze primarie della corte, adombrava, allora, il fenomeno tributario quale aspetto, forse, deteriore, della convivenza civile. Ma sarebbe altrettanto errato pensare che solo oggi l'elemento della solidarietà venga in rilievo: basti pensare, ad esempio, all'organizzazione delle tribù dei nativi amerindi, ove i beni erano posti tutti in comune rendendo, di fatto, inutile un sistema di prelievo coattivo. E' ovvio che la semplicità dell'organizzazione sociale di quelle comunità primordiali non rendeva necessaria l'organizzazione esattiva tipica, ad esempio, dell'antica Roma, ma ciò non toglie che, almeno in teoria, le finalità ultime dell'attuale società ben più si dovrebbero saggiamente avvicinare a quelle esigenze primordiali del dividere equamente risorse scarse, che non, purtroppo, allo spreco, come purtroppo avviene, della roma antica opulenta e decadentista.

lunedì 20 aprile 2009

LE DETERMINANTI 5: LA SCIENZA DELLE FINANZE

La scienza delle finanze è materia economica e non giuridica. L'economia della finanza pubblica, come viene recentemente denominata, quindi, si occupa d'interpretare, da un punto di vista economico, le scelte aventi ad oggetto le entrate e spese pubbliche, in senso lato. Il suo oggetto d'indagine, perciò, è moltro ampio. Questo, in ogni modo, non deve portare a concludere che fra essa ed il diritto tributario non vi possa essere un reciproco e costruttivo dialogo. Infatti, la parte che di essa si occupa delle entrate tributarie è molto ampia e non solo analizza tale settore secondo l'ottica degli effetti macroecnomici ma ne mette in evidenza, anche, l'aspetto microeconomico. Basti pensare alle scelte relative alla tassazione: l'oggetto, i soggetti, i metodi. Come poi ignorare che essa si occupa anche degli effetti dell'imposizione, oltre che sul sistema economico nel suo complesso, anche sulle singole attività economiche: evasione, elusione, traslazione, ammortamento, rimozione dell'imposta, sono suoi campi classici d'indagine. La materia tributaria è una, solo da un punto di vista artificioso (tipico del limite d'indagine propriamente umano) la sua analisi viene scomposta secondo metodiche diverse: giuridica, economica, sociologica, ecc. Ecco perchè una teoria, seppur giuridica, avente ad oggetto la determinazione della capacità economica ai fini della contribuzione impositiva non può prescindere da un pieno contributo da parte della scienza delle finanze.

domenica 1 marzo 2009

LE DETERMINANTI-4: STABILIZZAZIONE, REDISTRIBUZIONE, SVILUPPO

L'evoluzione della concezione del ruolo della finanza pubblica nei primi decenni del secolo scorso, con l'abbandono delle teorie del liberismo puro a favore di quelle keynesiane e, successivamente, neoliberiste, ha fatto si che la politica finanziaria dello stato da mero strumento di procacciazione dell'entrata, per fronteggiare la spesa pubblica, si evolvesse in mezzo per promuovere lo sviluppo, stabilizzare la domanda e redistribuire la ricchezza. Ciò ha contribuito ad influenzare la formazione dei vari sistemi tributari, in particolare mediante l'introduzione del c.d. principio di capacità contributiva e della conseguente imposta generale sul reddito (es. IRPEF) progressiva (funzione di redistribuzione). Le imposte generali sui consumi si prestanto, a loro volta, alla stabilizzazione della domanda, così come la manovra delle aliquote delle imposte sul reddito. Le agevolazioni, sia strutturali che episodiche, inoltre sono strumento per la promozione dello sviluppo. Le rigidità conseguenti all'eccessiva evoluzione del debito pubblico, negli ultimi decenni del secolo scorso, soprattutto in Italia, hanno condotto, purtroppo, ad una diminuzione dell'effeccienza ed operatività di tali strumenti, mediante una serie affannosa e frammentata d'interventi che, sul versante del sistema fiscale, contribuiscono a creare una percezione di disorganicità. Un teoria giuridica della capacità economica va oltre questi presupposti, evidentemente, essendo, invece tesa alla costruzione di logiche di determinazione e misurazione proprie del diritto tributario, subendo, però, non poco condizionamento dal tali "determinanti" di ordine generale.

venerdì 27 febbraio 2009

LE DETERMINANTI-3: IL BILANCIO DELLO STATO

Fra le determinanti del diritto tributario rientra, a mio parere, a pieno diritto il bilancio dello stato.

Su di esso, come detto, si scaricano, con effetti, poi a valle, le scelte politiche di spesa e di entrata.

Ma, per quel che qui interesse, da un punto di vista prettamente giuridico occorre mettere in evidenza come l'approvazione della norma di bilancio condiziona l'esecuzione delle norme tributarie, in particolar modo per quel che riguarda l'attuazione della riscossione. Tale aspetto, prettamente formale, visto che da un punto di vista sostanziale è molto improbabile che non venga approvata la legge di bilancio (magari anche s seguito di un esercizio provvisorio), da comunque la dimensione dell'unitarietà della norma tributaria, che, volendo richiamare l'impostazione kelseniana, si struttura evidentemente per gradi: al vertice vi è la norma di bilancio la cui esistenza e validità condiziona l'efficacia delle norma tributaria d'esecuzione.

In merito al bilancio dello stato vale anche la pena rilevare come esso si sia evoluto a partire dagli anni 40 del secolo scorso in poi. All'epoca la pressione della spesa pubblica sul PIL era pari, circa, al 15%, oggi oscilliamo attorno al 45/50%, la rigidità conseguente che ne deriva nella gestione delle leggi d'entrata, soprattutto tributaria, è evidente. Va sinteticamente rilevato, infine, che la normativa costituzionale, afferente, degli anni 40, è inadeguata agli odierni scenari economici e conseguentemente giuridici: nell'ottica di un immanente rapporto giuridico finanziario che lega lo stato al cittadino (ove vengono in rilievo situazione soggettive, comunque le si vogliano definire); l'art. 81 Cost, che vorrebbe normare il controllo politico sulle scelte di bilancio è strumento monco così come l'azione della Corte dei Conti dovrebbe trovare più ampio respiro.

giovedì 26 febbraio 2009

LE DETERMINANTI 2: SCELTE PUBBLICHE ED OPZIONE POLITICA

L'opzione c.d. politica, nell'ambito della finanza pubblica, com'è ovvio, non si manifesta solo al primo livello delle scelte di bilancio ma anche a stadi successivi ed in particolar modo, nel fenomeno tributario, nel momento delle scelte relative all'introduzione della tassazione (secondo livello) ed, infine, nella fase del procedimento d'imposizione (terzo livello). Penso che un approfondimento teorico del diritto tributario possa anch'esso giovarsi degli studi di James Buchanan, il quale con la sua "scuola delle scelte pubbliche" dimostra come le decisioni in materia di finanza pubblica possono allontanarsi dagli schemi di pura razionalità economica ed, aggiungerei, giuridica. Questo fallimento è spiegato da plurimi fattori: obiettivi economico sociali, aspirazioni ed interessi personali, errori di valutazione, libertà di azione più o meno ampia, sistemi elettorali, sistema amministrativo decentrato od accentrato, ecc. Come si avrà modo di analizzare meglio successivamente, esiste anche un altro influsso del momento politico sul diritto tributario, influsso che interviene patologicamente in quella particolare e delicata fase che dovrebbe concretizzarsi nella formazione delle basi proprie del diritto tributario. Momento, questo, catalizzante delle logiche di coerenza che provengono in primis dalla scienza delle finanze e dalle discipline di determinazione quantitiva della ricchezza e delle misurazioni d'azienda.

LE DETERMINANTI DEL DIRITTO TRIBUTARIO-1

La materia tributaria e, quindi, il diritto tributario sono soggetti a plurime "pressioni" che ne condizionano il modo di essere.

La consapevolezza di questa "realtà" non può che essere di ausilio nella costruzione di una teoria.

Se siamo alla presenza di una scienza c.d. sociale ecco che allora appare ineludibile indagare previamente quali siano queste determinanti.

Ad uno stadio germinale abbiamo la c.d. opzione politica di 1° livello, quella cioè che si determina nel momento delle decisioni di spesa e, quindi, di entrata del bilancio pubblico.

In realtà tale primo stadio, ancora molto distante dal prodotto "diritto tributario", si rivela successivamente come assolutamente determinante in quanto i vincoli che esso pone, inevitabilmente condizioneranno la normazione finanziaria-tributaria, sia programmatica che contingente.

martedì 17 febbraio 2009

SSUU CASS. SENT. 2870/09 E DINIEGO DI AUTOTUTELA

Che la precedente sentenza delle sezioni unite sollevasse qualche
dubbio già lo si era espresso mi pare nel forum vecchio di dialoghi
tributari:
riporto estratto


Con la conseguenza che il sindacato del giudice dovrà riguardare,non
solo l’esistenza dell’obbligazione tributaria (ove l’atto di esercizio
del potere di autotutela contenga una tale verifica), ma prima di
tutto il corretto esercizio del potere discrezionale dell’
amministrazione, nei limiti e nei modi in cui l’esercizio di tale
potere può essere suscettibile di controllo giurisdizionale,che non
può mai comportare la sostituzione del giudice all’amministrazione in
valutazioni discrezionali, né per i limiti posti dall’articolo 4 della
legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E l’adozione dell’atto di
autotutela da parte del giudice tributario.


L’invasione, da parte del giudice, della sfera discrezionale propria
dell’esercizio dell’autotutela comporterebbe, infatti, un superamento
dei limiti esterni della giurisdizione attribuita alle commissioni
tributarie. Sui limiti del sindacato giurisdizionale sugli atti di
autotutela, il cui superamento comporta un’invasione in una sfera
estranea a quella della giurisdizione tributaria, le Su ritengono
utile il riferimento ai principi affermati dalla giurisprudenza
amministrativa (ex plurimis, CdS, sentenze n. 6758 e 7287 del 2004),
in quanto, in base alla disciplina contenuta nell’articolo 2 quater
del Dl 564/94, convertito con modificazioni nella legge 656/94, e nel
regolamento di esecuzione, approvato con Dm 37/1997, i poteri di
annullamento d’ufficio e di revoca dell’Amministrazione finanziaria
possono essere esercitati soltanto nel perseguimento di interessi
pubblici. L’articolo 3 del regolamento stabilisce che, nell’esercizio
di tali poteri, deve essere data priorità «alle fattispecie di
rilevante interesse generale e, fra queste ultime, a quelle per le
quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso».


2.2. E’ quindi evidente che l’esercizio del potere in questione, che
non richiede alcuna istanza di parte (articolo 2 del regolamento) non
costituisce un mezzo di tutela del contribuente, sostitutivo dei
rimedi giurisdizionali che non siano stati esperiti, anche se lo
stesso finisce con l’incidere sul rapporto tributario e, quindi, sulla
posizione giuridica del contribuente.


Dai principi sopra enunciati consegue, inoltre, che nel giudizio
instaurato contro il mero, ed esplicito, rifiuto di esercizio
dell’autotutela può esercitarsi un sindacato nelle forme ammesse sugli
atti discrezionali soltanto sulla legittimità del rifiuto, e non sulla
fondatezza della pretesa tributaria, sindacato che costituirebbe
un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa. Ove
l’atto di rifiuto dell’ annullamento d’ufficio contenga una conferma
della fondatezza della pretesa tributaria, e tale fondatezza sia
esclusa dal giudice, l’Amministrazione finanziaria dovrà adeguarsi a
tale pronuncia. In difetto potrà essere esperito il rimedio del
ricorso in ottemperanza di cui all’articolo 70 del D.Lgs 546/92, con
l’avvertenza che tale norma, a differenza di quanto previsto per
l’analogo rimedio dinanzi al giudice amministrativo ex articolo 27, n.
4, del Tu sul CdS (Rd 1054/24), non attribuisce alle commissioni
tributarie una giurisdizione estesa al merito.


Il carattere discrezionale del ricorso all’autotutela comporta,
altresì, l’inapplicabilità dell’istituto del silenzio - rifiuto, non
esistendo, all’epoca dell’atto impugnato, alcuna previsione normativa
specifica in materia.


______


Da qui si era tratto lo spunto per dire: se l'Amministrazione non si
pronuncia o lo fa senza rientrare nel merito ma semplicemente
confermando, lede il contribuente e questi non potrà più far nulla; al
contrario, laddove si pronunci, magari malamente ma rientrando nel
merito, quindi collaborando con il contribuente ottiene per contro
l'impugnabilità dell'atto....


Su questo ci si era lasciati.....


Ora non mi pare che la sentenza in oggetto aggiunga qualcosa di
nuovo....


Giustamente evidenzia l'uso strumentale che potrebbe derivare
dall'interpretazione ed applicazione dell'istituto come mezzo per
rimettere in gioco un fatto già definito a causa della mancata
contestazione in sede amministrativa o giudiziale del presupposto
della maggior imposta.


Mi pare, cogliendo la matrice amministrativa, che l'interesse alla
rimozione deve essere bilanciato dall'interesse alla stabilità e
certezza del rapporto. Quindi i casi in cui, per infortunio del
contribuente, il fatto supposto sia poi del tutto inesistente o
difforme perchè venga riscontrato da un'autorità giurisdizionale non
tributaria siano del tutto esegui....ci si potrebbe sì porre
nell'ottica dell'esperibilità di altri rimedi.....o nella necessità di
revisione dell'istituto per queste ipotesi
(di The Planer)

Motivazione avviso accertamento e teoria generale

Recentemente mi è capitato di riflettere sulla struttura dell’atto
fiscale di accertamento e rettifica, tenuto conto della peculiarità
che lo stesso possiede nella riscossione odierna dei tributi erariali,
normalmente effettuata mediante l’adempimento spontaneo.
Se da un lato tale condizione rende meno importante l’attività degli
uffici tributari nella determinazione della capacità economica dei
fatti, degli atti, che consentono il realizzarsi dei presupposti di
tassazione disciplinati dalle singole leggi d’imposta, manca tuttavia
un’analisi dei concetti che informano o dovrebbero informare
l’attività di controllo degli Uffici finanziari sia nei confronti dei
soggetti che hanno adempiuto spontaneamente al pagamento del tributo
(occultando parzialmente la materia imponibile, errando nella
determinazione dell’imposta dovuta, etc…) sia nei confronti di coloro
che hanno omesso di dichiarare e versare spontaneamente (l’evasione
fiscale tout-court).
In questa breve analisi che, laddove dia origine a spunti di dialogo,
potrebbe essere sviluppata alla luce degli argomenti di seguito
esposti (in maniera anche sommaria, tenuto conto dello spazio), voglio
anticipare che non sarà oggetto di indagine la “motivazione dell’atto”
come normalmente viene inquadrata, ossia come strumento di semplice
cognizione dei presupposti di fatto e di diritto assunti dall’organo
tributario a fondamento della propria azione né tantomero i vizi
propri della stessa, poiché la manualistica e la dottrina tradizionali
si sono già soffermati su queste tematiche.
Tuttavia, proprio dalle modalità di approccio a questi aspetti della
motivazione dell’atto nell’ambito tributario, emerge una delle
problematiche più palesi: l’assenza di elaborazione dei concetti, per
lo più mutuati da altre aree del diritto (civile, societario,
amministrativo, etc…), inseriti nel sistema fiscale senza spesso
considerarne l’applicabilità in ragione dei meccanismi, delle regole
che lo caratterizzano.
Pertanto, nell’analizzare il problema della motivazione dell’atto
tributario, vorrei evidenziare gli elementi che la strutturano,
rimarcando grossomodo tre aspetti: a) la tipologia del soggetto
accertato b) la metodologia accertativa in funzione ed in ragione del
soggetto accertato c) la tipologia dell'eventuale violazione posta in
essere (non tratterò delle conseguenze sanzionatorie)
A questo punto, per esigenze di semplicità e brevità dell’esposizione,
indicherei quali elementi, peculiari dell’attività di controllo,
dovrebbero risultare dall’atto; all'uopo, avrei individuato la
seguente elencazione: a) presupposto dell’attività di controllo; b)
giudizio di fatto, esposizione delle modalità usate nella
determinazione della capacità contributiva c) giudizio di diritto,
ossia esposizione delle regole procedimenti applicate nell’analisi del
fatto e regole fiscali sostanziali violate d) attribuzione della
sanzione fiscale (su quest'ultimo elemento mi astengo dall'effettuare
valutazioni che sarebbero piuttosto de iure condendo che non de iure
condito).
Considerando l’atto scritto nella sua forma dematerializzata,
elettronica, potremmo definire questi elementi come le “macro“,
ciascuna implementabile e modificabile, che caratterizzano il file
nominato “motivazione dell’atto tributario”.
Di seguito pertanto vorrei, in questa sede, solamente esporre alcuni
concetti che potrebbero dar origine a riflessioni, nella forma
dialogica, su questi elementi che strutturano l’atto tributario
a) Presupposto dell’attività di controllo
L’indicazione nell’atto di accertamento dei presupposti che hanno
originato l’attività di controllo viene per lo più connessa ad una
semplice funzione di garanzia, cioè, in una prima fase per consentire
al contribuente di comprendere le ragioni per le quali l’Ufficio
procede ad analizzare la posizione fiscale dello stesso, per appurare
la correttezza dell’agire dell’istituzione nei confronti del
contribuente ed in una fase successiva per permettere ad un soggetto
terzo (normalmente chi esercita la funzione giurisdizionale) di
valutare la correttezza di tali presupposti.
Tale visione, strettamente “formalista”, dell’indicazione del
presupposto dell’attività di controllo, pur essenziale anche per
questo scopo, mi pare vada adeguata al ruolo che l’esposizione degli
inputs usati dall’Amministrazione finanziaria dovrebbe avere (ed avrà
sempre più in futuro) per comprendere alcune direttive essenziali
sulle quali strutturare la tassazione e la disciplina tributaria in
futuro.
Ciò deriva essenzialmente dal fatto che tale “macro” è quella che
normalmente meno viene analizzata dalla dottrina, considerata per
prima nella trattazione solo per necessità di completezza nella
trattazione della tematica della motivazione, ma senza un’adeguata
valorizzazione.
Pertanto, l’indicazione dell’attività del presupposto dell’attività di
controllo è, per converso, da un punto di vista sostanziale,
fondamentale e primaria per comprendere la tipologia del soggetto
passivo d’imposta controllato, le modalità del controllo, la tipologia
della violazione eventualmente commessa e le conseguenze che ne
derivano.
Prima di individuare però gli aspetti essenziali dell’indicazione del
presupposto del controllo, occorre però usare e per i più, presumo,
appropriarsi di categorie concettuali che non sono diffuse nella
quotidiana trattazione della materia fiscale, ma esistenti ad uno
stadio larvale e ancora poco diffuso in dottrina (mi riferisco a
categorie esposte da Raffaello Lupi in tempi più recenti e di cui
intendo fruire pienamente nella presente analisi).
Il primo concetto è quello della distinzione tra “eterodeterminati” ed
“autodeterminati”, cioè tra coloro oggetto di segnalazioni da parte di
altri soggetti e coloro che invece, non essendo fiscalmente segnalati,
non trovano riscontri ad eventuali forme di determinazione spontanea
della capacità economica oggetto di tassazione.
Nella prima ipotesi i fatti, gli atti, compiuti da questa categoria di
contribuenti, trovano delle manifestazioni, delle misurazioni,
compiute nel quotidiano da altri soggetti, che consentono
all’Amministrazione finanziaria, attraverso l’Anagrafe Tributaria, di
avere un controllo, più o meno dettagliato, del comportamento tenuto;
nella seconda ipotesi, l’assenza di riscontri o la scarsità di
informazioni acquisite non consente di valutare con semplicità e
tendenziale precisione le forme di capacità economica manifestate da
questa categoria dei soggetti.
A titolo esemplificativo, possiamo collocare nella prima categoria
coloro che operano subendo forme di prelievo intermedio
nell’adempimento spontaneo dell’obbligazione tributaria (coloro che
sono soggetti a ritenuta); nella seconda, chi opera senza subire forme
di prelievo intermedio, senza segnalatori della della capacità
economica, determinando pienamente in autonomia la propria capacità
economica.
Volendo poi ulteriormente sezionare quest’ultima categoria, quella
degli “autodeterminati“, potremmo distinguere coloro che operano nei
confronti di soggetti economici attivi nella produzione di beni/
servizi (operazioni tra soggetti muniti di partita iva) da coloro che
operano nei confronti di soggetti economici passivi, nel senso che si
limitano a fornire beni/servizi al consumatore.
Il secondo concetto-guida è rappresentato dalla “modalità di
determinazione della capacità contributiva”: all’interno di tale
categoria possiamo distinguere tra coloro che determinano il
realizzarsi dei presupposti del prelievo fiscale in modo “analitico”,
da coloro che, al contrario determinano la loro capacità contributiva
in modo “sintetico”.
Questa categoria concettuale, a differenza di quella prima indicata,
eterodeterminati/autoderminati, presenta una complessità notevole di
analisi e di collocamento dei contribuenti nello schema proposto: se
la chiave per essere considerato soggetto che esprime capacità
economica in modo “analitico” piuttosto che “sintetico” è fornita
dalla presenza o meno di strumenti di misurazione della capacità
stessa, come la misurazione contabile, per lo più gestiti direttamente
dallo stesso contribuente o da terzi per suo conto e nelle forme più
evolute anche ulteriormente controllati da terzi estranei, esiste
un‘area di mezzo o di contiguità ampia, quantitativamente, nella
scelta di collocamento del soggetto tra gli “analitici” piuttosto che
i “sintetici” (si pensi alla differenza tra il contadino che vende i
prodotti dei propri campi, al negozio di frutta e verdura la cui
contabilità è tenuta dal cugino ragioniere, alla società Alfa s.p.a.
che possiede 200 punti vendita, alla multinazionale che opera in più
Paesi nella distribuzione al consumo degli stessi prodotti).
Impostati questi due concetti, eterodeterminazione/autodeterminazione
ed analiticità/sinteticità, si può quindi comprendere l’importanza
dell’esposizione del presupposto del controllo caratterizzato
dall’indicazione degli elementi posti alla base dell’attività di
accertamento in funzione delle categorie concettuali poc’anzi
trattate.
Volendo esemplificare, l’omessa presentazione della dichiarazione
fiscale annuale, che nella disciplina sulle procedure di controllo ai
fini delle imposte sui redditi ed iva assurge ad elemento per
accertare mediante induzioni, cioè per elementi indiziari, la capacità
contributiva espressa da fatti od atti posti in essere dal soggetto
passivo, avrà un significato diverso allorchè il contribuente
determini l’imposta dovuta in modo analitico e si etero/auto determini
nella tassazione: un carrozziere persona fisica che ometta la ...
(di The Planer)

lunedì 2 febbraio 2009

ANALISI ECONOMICA DEL DIRITTO TRIBUTARIO

Sto leggendo "How judges think" di Posner,
un'inno al pragmatismo giudiziario americano.
Posner sostiene che i giudici americani fanno impiego - inconsapevole
- di law & economics, nel senso che il loro pragmatismo, orientato
alle conseguenze pratiche - anche su casi futuri - di una decisione,
spesso si fonda su ragionamenti che, anche se con strumenti formali
diversi, arrivano a soluzioni analoghe a quelle che derivano
dall'analisi costi/benefici ed esternalita' tipica della L&E.
vi risulta che qualcuno si sia mai posto il problema del pragmatismo
tributario? ossia della consapevole ponderazione degli effetti della
decisione di un caso? probabilmente decisioni come quella sul dividend
washing sono pragmatiche se riferite al caso singolo (ossia: ponderati
pro e contro epr ufficio e contribuente, il giudice decide che il
contribuente ha torto e poi va a cercare una giustificaizone giuridico
formale di decisoni prese con un criterio di "giustizia
sostanziale").
ma quelle riferite a un pragmatismo orientato al futuro? del tipo:
prima di decidere verifico cosa succedera' a chi e' chiamato dopo di
me a decidere altri casi.
i giudici statunitensi sembrerebbero orientati a limitare l'effetto
futuro delle proprie decisioni ed il pericolo che, una volta enunciato
un principio di diritto, questo risulti applicabile a fattispecie che
semanticamente vi rientrano, ma sono fuori dal cono d'ombra del
"principio sostanizale" che sta dietro al "principio di diritto
enunciato".
Un esempio classico era lo statuto medievale di Bologna (lo cita
William Blackstone nel classico Commentaries on the Laws of England,
non ho trovato cosi' al volo un referente italiano) che vietava di
"versare sangue per strada" per scoraggiare i duelli: il flebotomo che
soccorre un malato epr strada deve essere punito? ha versato sangue
per strada, ma chiaramente non nel modo che la disposizione voleva
colpire.
ecco, le massime sull'abudo del diritto, sull'antieconomcita',
sarebbero assai utili in un contesto pragmatico, in cui chi le applica
dopo ne cerca non il significato formale, ma lo spirito, e quindi le
rivaluta volta epr volta in un nuovo giudizio di fatto pragmatico.
invece da noi il giudizio pragmatico e' solo alla abse del primo
rpecedente, ilr esto e' un (apparente) sillogismo giudiziario in cui
la premessa maggiore e' lacritica trascrizione della massima (che,
spesso, non e' nemmeno il vero motivo della decisione originaria).
(di Marcello Tarabusi)

mercoledì 28 gennaio 2009

FEDERALISMO E REGOLE DEL GIOCO

E' lecito domandarsi se la realizzazione del c.d. federalismo fiscale cambierà, di fatto, le regole del gioco, a partire da quelle costituzionali (fra l'altro in uno stato non federale! Ed anche qua si potrebbe ragionare).

Leggo, dalla mia primaria fonte d'informazione, che più su un'irpef si punterà su un'iva federale. Cioè le regioni finanzieranno le funzioni fondamentali trattenendo molta IVA. Ovviamente la rifoma fiscale viene dopo la riforma delle autonomie di cui si è parlato a novembre. Il che, teoricamente, vorrebbe dire che lo stato centrale s'allegerisce mentre il governo locale s'appesantisce di compiti. Ciò che riflesso avrà sulle IIDD? Perchè si sta facendo retromarcia sull'assegnazione di queste alle regioni, dirottandole sull'IVA? Perchè, immagino, così facendo, come da ultimo proposto, si mantiene l'invarianza del gettito in entrata a livello centrale (pur dovendo questo, ma non ci credo, dimagrire, come detto, di compiti). Se le funzioni delle regioni aumenteranno non saranno, di certo, i poveri tributi minori a sostenerne il peso...ma proprio (allo stato) l'iva. Il sistema globale, cioè, sposterà il baricentro sull'imposta sui consumi, proporzionale e quindi regressiva. Forse. Con buona pace, ma non vi è bisogno di ribadirlo, ancora una volta del 53 Cost. (che presumibilmente servirà solo, come capita spesso anche ora, a giustificare qualche sentenza della Corte di Cassazione o della Consulta).

giovedì 15 gennaio 2009

Ancora sul concetto di ANTIECONOMICITA'

Sull'antieconomicità è uscito un articolo su CT 4/2009 di Raffaello.


Nuovamente si ribadisce la necessità di ricondurre l'argomentazione
dell'antieconomicità come osservazione dell'AF rispetto alla _situazione
di fatto_ accertata (_giudizio di fatto_), tanto più pregnante quando
accompagnata da ulteriori elementi che rafforzino la convinzione
dell'assenza di riscontro tra quanto risulta nella documentazione
contabile, che costituisce uno specchio sostanzialmente per la fiscalità
analitica, e la situazione di fatto riscontrata.
Forse nell'articolo non emerge, ma se ne era già parlato in Dialoghi,
che normalmente l'antieconomicità può verificarsi laddove la
controparte, che sopporta un costo, non abbia un interesse a far
emergere quanto corrisposto - ciò che si verifica normalmente alla fine
della filiera produttiva, cioé con l'immissione al consumo del prodotto
e del servizio.
In questo caso, non trovando applicazione il principio di simmetria, è
assai facile che tale ipotesi si realizzi.


Certamente, come ancora accade, non può essere usata l'argomentazione
dell'antieconomicità per ricondurre a diversa valutazione giuridica del
fatto (es: una vendita costante sottocosto in un mercato profittevole è
un fatto anomalo, indiziario di possibile evasione ma che, per esempio,
non può condurre ad una riqualificazione del fatto come negozio misto o
addirittura una assegnazione, per applicare il valore normale previsto
per le ipotesi di assenza di controprestazione determinata nel valore).
Non tocca quindi la sfera del _giudizio di diritto_ come invece accade
per l'elusione, istituto diverso perchè opera in situazioni di mancato
realizzo del presupposto determinato da aggiramento dei principi
generali che caratterizzano l'ordinamento fiscale ed la determinazione
della capacità contributiva nella fiscalità d'impresa
(principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti, divieto di
compensazione intersoggettiva, simmetria dei flussi di reddito, divieto
di doppia imposizione e quindi esenzione; divieto di commercio delle
perdite, divieto di sfruttamento delle norme pattizie contenute nei
trattati internazionali per ritrarre da ambedue gli ordinamenti risparmi
fiscali, neutralità delle operazioni straordinarie, meccanismi di
agevolazione/credito fiscale per ottenere indebiti vantaggi).
(di The Planer)

Il concetto di SENTENZA "retroattiva"

Il tema della retroattivita' per una pronuncia
e' mal posto.
Osservo due cose:
- resta il tema della "ragionevole prevedibilita' dell'esito della
lite", che dovrebbe, in caso di clamorosi revirements o arresti
particolarmente creativi/innovativi, incidere - come minimo - sul tema
della conoscibilita' del precetto tributario e dell'affidamento, e
quindi per lo meno sulle sanzioni. Un giudice intellettualmente onesto
che ti faccia una sentenza come quelle sull'abuso del diritto dovrebbe
per lo meno esporre se - e in che misura - vi sia spazio per
disapplicare le sanzioni;
- quanto al tema della funzione di creazione giurisdizionale del
diritto, direi che la dottrina del precedente (stare decisis) non sia
poi cosi' dissimile tra common law e civil law. Gli studi di Galgano e
De Nova, e prima ancora di Gino Gorla, hanno dimostrato che anche in
italia esiste una "dottrina dello stare decisis". In common law, al
contrario, lo stare decisis e' recessivo (in UK la House of Lords si
e' dichiarata non vincolata dai propri precedenti, in USA il sistema
delle corti statali/federali/Corte Suprema e la possibilita' del
distinguishing o dell'overruling crea un meccanismo "fluido" del
rpecedente) ed anzi e' recessiva la common law rispetto alla statutory
law (la produzione legislativa in UK e USA e' ormai ipertrofica come
da noi).
Una disincantata visione della funzione giudiziaria non puo' che
riconsocere funzione creativa alla giurisdizione, per varie ragioni:
- e' esercizio di un potere di porre norme concrete (Kelsen)
- le massime vincolano (per coazione giuridica, logica e/o sociale) il
quadro delle future decisioni e quindi entrano nelle variabili del
calcolo di rpevedibilita' delle decisioni
- non tutte le questioni da decidere sono ricavabili da un semplice
sillogismo giudiziario, per le tante, ovvie ragioni (vaghezze delle
disposizioni, ambiguita' del testo, etc. etc., ex multis v. Guastini).
In sintesi, quindi, civil law e common law non sono poi cosi' lontane.
(di Marcello Tarabusi)