martedì 26 ottobre 2010

Stefano Palestini: La neutralità fiscale degli interessi nell'ambito del reddito d'impresa

Volevo intervenire nel dibattito sugli oneri finanziari apparso in Dialoghi nr. 5 con delle riflessioni basate sull'economia - finanziaria , in cui cerco di spiegare che per quanto gli interessi passivi siano un costo particolare a livello di capacità contributiva sono sostanzialmente neutri (elusioni / abusi sono chiaramente possibili e da gestire/disincentivare ) se il loro trattamento fiscale è ben coordinata tra società e il socio e con i dividendi. Inoltra la particolare struttura finanziaria del nostro paese rende difficilemmnte individuabili gli abusi, soprattutto se ci si limita a focalizzarsi sul livello del debito o degli oneri finanziari.
Se i ragionamenti stanno in piedi e sono interessanti si potrebbe estrapolare un piccolo articolo per continuare il dibattito iniziato su Dialoghi.

La teoria economico- finanziaria con Modigliani e Miller (M&M) dagli anni ’50 ha spiegato che il valore della società è, per il socio, perfettamente indifferente alla sua struttura finanziaria, cioè alla proporzione tra il debito ed il capitale proprio. Questo vale fino ad un certo livello di indebitamento, superato il quale emerge il rischio di uno squilibrio finanziario patologico.
L’asserzione veniva dimostrata spiegando che un socio (diciamo per semplicità persona fisica) poteva acquistare una società interamente finanziata con capitale proprio impiegando per il 50% i propria risparmi e per l’ulteriore parte prendendo denaro in prestito da una banca , in questa maniera si otteneva l’identico risultato che si avrebbe avuto con una società finanziata per metà da capitale proprio e metà tramite debito. Quindi se il socio può replicare in capo a se stesso la struttura finanziaria preferita , quella realmente esistente nella società diviene indifferente (chiaramente esistono dimostrazioni analitiche nei libri di finanza). Nella sostanza se produco meno utili perché debbo “servire” il debito è anche vero che il socio ha investito un importo inferiore a titolo di capitale proprio.
Ma , ed è qui che giunge il nostro interesse, ciò è vero solo se in capo al finanziatore (socio o banca) vi sia una coerente trattamento fiscale degli interessi in capo alla società ed al socio . Nella versione originale del primo teorema di M&M si ipotizzava assenza della tassazione, ma è facile dimostrare che l’ indifferenza della struttura finanziaria si ottiene anche con una medesima tassazione in capo alla società e al socio. Infatti la tabella in basso mostra che il rendimento complessivo è uguale sia in presenza di imposte ( rendimento complessivo di A uguale a quello di B ) che senza imposte (rendimento complessivo di C uguale a quello di D).
Invece, se gli interessi attivi in capo ai soci fossero tassati, in misura inferiore rispetto alla deducibilità degli interessi passivi in capo alla società e i dividendi fossero indeducibile dal reddito d’impresa, il solo incremento dell’indebitamento porterebbe ad un aumento del valore della società ( almeno fino a che non emergesse concretamente il rischio del dissesto economico finanziario). Si tratterebbe di una sorta di sovvenzione fiscale al debito che non è ugualmente presente nella remunerazione del capitale proprio (tax shield). Nella tabella sotto è possibile constatare che -nel caso limite di assenza di imposte in capo al socio - basta aumentare il debito per avere un incremento del rendimento (rendimento complessivo F > E).
Quindi da ciò si dovrebbe desumere la necessità di una certa simmetricità del trattamento fiscale degli oneri finanziari, che fa da corollario alla neutralità sostanziale dell’operazioni quindi o “deduco e tasso” oppure “non deduco e non tasso” .
Questo ripasso di economia – finanziaria dovrebbe aiutare ad eliminare qualsiasi pregiudizio sul debito e soprattutto sugli interessi passivi , aiutandoci a comprendere i comportamenti degli operatori economici inquadrando il trattamento degli interessi nell’ambito del coordinamento della tassazione tra società e socio con particolare attenzioni agli abusi/elusioni che non sono di facile individuazione, anche perché non ne è necessariamente un indizio l’elevato livello di debito.
La realtà italiana caratterizzato da un accesso al credito basato più sulle garanzie personali dei soci che sulla autonoma capacità delle aziende , rende - da un certo punto di vista - indifferente finanziare la società o il socio, visto che il rischio ricade sempre su quest’ultimo, che unitamente ad una mite tassazione degli interessi attivi in capo alle persone fisiche (tra il12,5% e il 27%) e l’indeducibilità di quelli passivi )nel caso di persone fisiche che non poducono reddito d’impresa), ha fatto preferire l’ indebitamento delle società , consentendo la deducibilità degli oneri finanziari (risparmiando ora il 27,5% dell’IRES ma se torniamo indietro fino alla metà degli annia novanta arriviamo ad oltre il 50%) conseguendo un lecito arbitraggio tra tassazione delle due diverse tipologie di reddito. Questo ha spinto le società a ristretta base societaria ad essere sempre state restie a distribuire i dividendi (magari servirebbe una conferma empirica), perché spesso la remunerazione dei soci avveniva tramite il pagamento degli interessi sui finanziamenti a titolo di credito ( essendo trascurabile l’apporto nel capitale permanente) e tramite salari, piuttosto che consulenze per la loro opera prestata all’interno della società o ancora compensi per le cariche societarie.
Quindi in presenza di elevati oneri finanziari (o elevati livelli di stock del debito) è difficile distinguere, nella nostra realtà, se questi derivano dai comportamenti sopra descritti o da operazioni elusive latu sensu (operazioni circolari) .
Infine volevo concludere esprimendo alcune perplessità sulle considerazioni in Dialoghi nr. 5 sul fatto che gli oneri finanziari interni non sono computati nei calcoli del PIL , credo che questa affermazione non possa essere traslata sulla loro rilevanza fiscale senza qualche ulteriore approfondimento. Il PIL comprende il valore complessivo dei beni e servizi prodotti all'interno di un paese, in un certo intervallo di tempo e destinati ad usi finali . Fondamentale è la caratteristica “destinati ad usi finali” , per la quale gli oneri finanziari tra soggetti nazionali non vengono considerati in quanto trattasi di flusso di redditi intermedi che si annullano come se fosse un bilancio consolidato, ma così avviene esattamente per tutti le altre transazioni interne di beni e servizi, quindi anche una acquisto interno di materie prime (grano) viene escluso dal PIL ma non per questo è indeducibile mentre viene computato il prodotto finito destinato al consumo (il pane).

Stefano Palestini

lunedì 25 ottobre 2010

Stefano Palestini: l limiti degli accertamenti "deterministici" serializzati

Le metodologie di accertamento di tipo “deterministico” come le presunzioni sui versamenti bancari, gli studi di settore, i parametri, i redditometri, le tracciabilità delle operazioni finanziari, gli incroci tra banche dati (eccetto quelle con i sostituti di imposta) hanno cavalcato la speranza di serializzare la determinazione della capacità contributivo in modo a-valutativo ed automatico.
Questi strumenti partendo da comportamenti e dati di fatto generalizzati hanno cercato di assumere dignità giuridica e legittimazione, tramite processi di inferenza statistica, troppo tecnici per essere socialmente condivisi, anche in quegli eventuali casi in cui i risultati avrebbero potuto ritenersi corretti.
La legittimazione è resa necessaria dalla giuridicità della disposizione ottenuta tramite giustificazioni razionali e mediamente osservata ed accettata (…ma questa è un’altra questione). E’ difficile accettare che una funzione statistico-matematica determini quanto del nostro portafoglio deve essere destinato al fisco.

Stesso discorso vale per le presunzioni, risulta difficile condividere per un contribuente che la sua capacità contributiva possa essere definita partendo da fatti generali per inferire una sola conclusione circa la tassazione (presunzioni sulle movimentazioni bancarie). Le presunzioni valgono quando hanno portata molto circoscritta oppure sono generalmente e notoriamente validate.
Si è cercato di ridurre la realtà a dei modelli che partendo da variabili generali determinano le imposte dei singoli individui, con meccanismi e ragionamenti simili ai modelli formali “deterministici”degli economisti (mentre i principi di fondo potrebbero essere corretti se applicati ai singoli casi) .
Occorre focalizzarsi sui fatti specifici che generano capacità contributiva, che sia parziali ed imprecisi sono strettamente legati da un rapporto di causa ed effetto al reddito, solo in questo modo vi sarebbe una maggior coesione sociale intorno alle procedure di monitoraggio/accertamento e richiesta delle imposte.
Sarebbe certamente più semplice creare consenso sociale intorno alla scoperta di fatti produttori di reddito che non su presunzioni e funzioni matematiche.
Per ultimo lascio una considerazione sulla contabilità, questa non è altro che una rappresentazione dei fatti di una “azienda” tramite regole sintattiche, che funziona solo se i fatti gestionali vengono integralmente censiti e poi correttamente rappresentati, questo funziona quando è presente un minimo di rigidità ed autonomia organizzativa.
Quindi da un certo punto di vista non vi è una dualità tra accertamenti fiscali sui fatti o sulla contabilità, quest’ultima si utilizza quando i fatti sono troppi e complessi per cui vi è il bisogno di essere rappresentati in modo sintetico e con un linguaggio comune per poter esser compresi.

Stefano Palestini

giovedì 15 aprile 2010

Segue...commento a Teoria Tributaria del Prof. Raffaello Lupi

Ho adattato delle riflessioni già proposte per commentare i paragrafi
2.2 e seguenti, alla luce di una lettura più complessiva, rapportando
i modelli di comportamento con le forme di evasione. Una lettura
della teoria dell’Agenzia (Agency model) in campo fiscale , può essere
utilizzata per spiegare e riconoscere le organizzazioni aziendali
fortemente strutturate, e quindi rigide, che tendono spontaneamente a
dichiarare la loro capacità contributiva . Si tratta di quelle
strutture a cui, che per dirlo con le parole del Prof. Lupi, basta la
Gazzetta Ufficiale per far pagare le imposte.
Le aziende in cui vi è una management , soprattutto quello
amministrativo, professionale e discretamente autonomo dalla
proprietà, tenderà naturalmente a manifestare la capacità economica
ed applicare prudentemente la normativa fiscale (spesso “scudati” da
robusta pareristica) .
Questo accade non per la bontà del management (è un po’ come la
“benevolenza del macellaio” in Smith) ma per evitare di dover
rispondere alla proprietà di eventuali danni economici legati ad un
contenzioso fiscale . Quindi la Direzione aziendale indirettamente e
per motivazioni diverse aiuta il fisco a perseguire i propri
interessi, consentendogli di superare le asimmetrie informative insite
nel “modello di agenzia”.
In questo caso è lo stesso management che svolge la funzione di
segnalatore al fisco della capacità contributiva dell’azienda, mentre
in altri casi abbiamo visto che è l’azienda che svolge la funzione
di segnalatore dei fornitori e dipendenti.
Diversamente accade nelle aziende in cui la proprietà, che ha un
interesse diretto a ridurre il carico fiscale (che permette di
incassare dividendi più elevati a parità di utile ante imposte o di
incassare direttamente le vendite “in nero”), è fortemente coinvolta
nella gestione dell’impresa in cui l’amministrazione è gestita da
“persone di fiducia” scarsamente responsabilizza te, che eseguono le
direttive impartite . In questo caso il management amministrativo ha
il solo interesse di assecondare la proprietà senza correre alcun
rischio di essere chiamato a rispondere di eventuali contenziosi
fiscali . I soggetti che hanno un vantaggio informativo , proprietà e
management , hanno interessi collusi tra loro ed antitetici rispetto
al fisco, e quest’ultimo non riesce a recuperare le informazioni
occultate sulla capacità contributiva .
Tutti ciò ci fa comprendere come le dimensioni aziendali non sono
sempre un valido spartiacque per individuare i due modelli di gestione
aziendale.
Spingendo oltre il ragionamento, le aziende dotate di un forte
management, abbastanza indipendente dalla proprietà, possono sfociare
in comportamenti patologici come l’evasione “per l’azienda” (Par.
2.4), con cui realizzare acquisti a prezzi più bassi da fornitori che
evadono l’iva , remunerare i dipendenti tramite rimborsi chilometrici
abbattendo il costo per l’azienda in qunato non tassati in capo al
dipendente e non imponibili ai fini contributivi etc; il tutto per far
apparire l’azienda più profittevole e consentire al management di
aumentare la propria influenza ed il tornaconto economico (bonus,
aumento dei compensi). Le aziende in cui la presenza della proprietà
è forte e la gestione è eventualmente affidata a “persone di
fiducia” colluse si hanno i fenomeni di evasione “sopra l’azienda” .
Nei rapporti tra privati e tra autonomi e privati, viene a mancare
quella contrapposizione di interesse che costituisce quella minima
garanzia ai comportamenti conformi alle norme tributarie, che può
esser trovate nelle aziende “rigide” ; ma non finisce qui, perché
congiuntamente manca anche il deterrente della segnalazione, che si
ha con il coinvolgimento di almeno una azienda (possibilmente
rigida). In questi casi è direttamente l’autorità fiscale che deve
necessariamente procurarsi le informazioni sul campo ed analizzare la
plausibilità dei comportamenti con verosimiglianza .
Questa stessa metodologia di indagine dovrà far parte dello
strumentario per valutare il grado di “rigidità” delle aziende, cioè
apprezzare l’applicazione di procedure interne ed il loro controllo,
comprendere il livello di autonomia e indipendenza dalla proprietà di
cui gode il management, che processi che non possono esser stabiliti
per Legge o Circolare; questa è la vera sfida, perché tolti alcuni
casi marginali di aziende che per dimensioni ed articolazione
geografica sono senza dubbio rigide (multinazionali, filiali di
multinazionali estere) la gran parte credo facciano parte di un area
grigia da valutare caso per caso. Tali valutazioni e discrezionalità
innanzitutto sono oggettivamente difficili da effettuare e non fanno
parte del back ground culturale degli Uffici Fiscali, dove comunque
occorre che i singoli funzionari abbiano “le spalle coperte”
altrimenti, se si è sfortunati, ti accusano di favorire qualcuno (o
addirittura di essere corrotto o concusso) .

stefano palestini

venerdì 2 aprile 2010

Riflessioni di Stefano Palestini sul "volumetto" di Raffaello Lupi

Vorrei soffermarmi sul capitolo 1.3 intitolato Riferimento della
tassazione a ricchezza individuabile in modo frammentario, il quale
descrive come non sia possibile una rilevazione della ricchezza
globale degli individui, tenendo conto di tutti i fattori che vi
influiscono dalla nascita alla morte. E’ realisticamente corretto
l’asserzione, soprattutto con l’incremento dei modi, della velocità e
luoghi di circolazione della ricchezza avvenuta negli ultimi decenni.
In aggiunta parte di questa ricchezza nasce direttamente da
speculazioni in strumenti finanziari smaterializzate ed apolidi ,
oppure pur derivando da attività materiali viene veicolata e fatta
circolare comunque tramite questi strumenti finanziari.
Però a mio avviso un sistema tributario non deve perdere di vista
l’obiettivo tendenzialmente di intercettare le fetta più grande di
ricchezza tramite una serie di strumenti diversificati che sono i vari
tributi

Mi piace immaginare gli incrementi di ricchezza come un flusso di
veicoli in autostrada, in marcia da un posto (persona o società) ad
un altro; il tipo di veicolo, indica la causa del flusso : reddito,
donazione, prestito etc . Il veicolo nel suo trasferimento dovrà
superare vari caselli o barriere ai quali pagare o meno un pedaggio,
sulla base della tipologia a cui appartiene. Ecco quindi il veicolo
donazione, che supererà gratuitamente il casello IRES ed IRPEG ed
anche quello IVA, ma sarà, in ogni caso, costretto a pagare il
pedaggio in quello REGISITRO .
In questa visione romanzata, il sistema fiscale è un mappa di strade
e caselli che alcune volte intercettano i flussi di ricchezza in
movimento altre volte quando è giunta a destinazione. Una prima
descrizione approssimazione della mappa è quella che avevo riportato
in un precedente intervento (che riporto alla fine per comodità), ma
la difficoltà è trovare forma tecniche di tassazioni efficiente, non
intendendo solo la struttura del tributo in senso stretto ma anche
l’attività/processi con cui l’Amministrazione Finanziaria li
richiedono/applicano.
Se la direzione è verso un sistema di tassazione ad alto coefficiente
di “realità” , puntando dritto verso i flussi di ricchezza, occorre
tener conto che le persone godono o subiscono , una serie di
situazioni comunque oggettive, che a parità di ricchezza fanno
divergere il loro benessere, si tratta di esigenze di equità
sostanziale a cui dovremo dar risposta . E’ un po’ anche la sfida
della politica economica di trovare quegli indicatori, aggiustamenti
che consentano a parità di PIL (e diciamo anche di indebitamento)
di due nazioni, di comprendere le diversità di benessere . Faccio
l’esempio di due famiglie che percepiscono lo stesso reddito, nella
prima lavora un solo componente, nella seconda lavorano due , a
parità di reddito il benessere della prima sarà molto più alto.
A questo punto tali rivendicazioni debbono trovar posto in correttivi
ad un tassazione fondamentalmente reale oppure occorre sganciare il
comparto welfare/servizi al di fuori di quello ricchezza/tributi.
A tali domande occorre dar risposta prima di modellare un sistema
tributario sulla “realità”, altrimenti si finisce come al
solito…..anche perché come è frammentata la ricchezza sta diventando
sempre più frammentata anche la struttura sociale insieme alle sue
necessità. Forse per coniugare una tassazione reale con la
molteplicità delle situazioni sociali la soluzione a livello di
sistema potrebbe essere la suddivisione del comparto welfare/servizi
da quello della determinazione della capacità contributiva (se non
sbaglio questo aspetto della suddivisione è stato accennato qualche
volta anche da Tremonti) .
Allontanandoci un po’ dal tema della riflessione occorre evidenziare
che nel nostro paese questi temi diventeranno sempre più importanti ,
perché i servizi rivolti alle famiglie sono molto scarsi sia per
tipologia che per estensione , senza riuscire a riequilibrare alcune
peculiarità oggettive personali, che fanno divergere la ricchezza dal
benessere . Si tratta di quei servizi rivolti principalmente alle
fasi della vita delle persone in cui queste non sono autosufficienti o
lo sono scarsamente, vedi l’ infanzia (ad esempio mancanza di asili
nidi), vecchiaia (mancanza di assistenza talvolta anche banale per far
la spesa o andare a fare una visita medica) o casi ancora più
sfortunati.
Fino ad oggi tali esigenze sono state superate tramite la famiglia
allargata che fungevano quasi da un erogatore di servizi interno ai
componenti , ora l’incremento delle famiglie mononucleari derivanti da
esigenze di trovare il lavoro dove c’è, cambiamenti culturali che
portano le nuove famiglie cercare una propria autonomia, incidono
pesantemente sul benessere delle persona a parità di ricchezza. Sono
fenomeno di cui si deve tener conto che sicuramente non sono
bilanciati dalle detrazioni/deduzioni concesse in sede di liquidazione
delle imposte, tanto che anche gli stessi indicatori ISEE diminuiscono
il reddito equivalente per la presenza di figli a carico in maniera
molto più tangibile rispetto alle detrazioni . Come dire lo Stato
riconosce questa situazione quando deve scegliere a chi dare certi
servizi ma non quando deve incassare .
Anche quest’ultime sono problematiche dirette alla conservazione
della coesione sociale in cui un effiace ed efficiente approccio
consente la sostenibilità di un sistema tributario.


Per comodità riporto il mio commento su Riflessifiscali, in cui
ho provato a descrivere una mappa di formazione della ricchezza/
patrimonio, da cui può esser compreso quello che passa per la
dichiarzione e quello che comunque un sistema tributario dovrebbe
intercettare.
La ricchezza - patrimonio è una grandezza “stock” cioè adatta ad
essere misurata - in modo più o meno approssimata - in un preciso
istante di tempo , così posso dire cha al 31 dicembre posseggo tre
case, un certo saldo nel conto corrente bancario ed un certo
ammontare
di titoli. Il patrimonio rappresenta l’aspetto statico, la fotografia
di una serie di beni in un dato momento .
La ricchezza - patrimonio si forma in due modi, tramite il reddito o
tramite trasferimenti unilaterali di ricchezza. Possono verificarsi
modificazioni qualitative nella composizione del patrimonio, tramite
degli “scambi” di alcuni beni con altri : denaro contro immobili o
titoli contro denaro.
Il reddito è quello che tutti conosciamo, un flusso di beni
misurabile in un intervallo temporale, esprime l’aspetto dinamico del
patrimonio, che lo accresce o lo diminuisce (nel caso si tratti di
perdite). In un'altra visione, non è altro che la differenza tra il
patrimonio misurato in due diversi momenti. Il reddito può essere
prodotto dal patrimonio stesso (come gli interessi attivi, utili,
canoni di locazione, plusvalenze) oppure tramite le attività
sganciate dal patrimonio : lavoro dipendente, autonomo in senso ampio
piuttosto che imprenditoriali .
L’altro modo di accrescimento della ricchezza è rappresentato dai
trasferimenti unilaterali di ricchezza gratuiti come possono essere
le eredità o le donazioni, istantaneamente uno stock di beni entra
nella sfera giuridica del possessore riconnesse a fenomeni successori
i atti di liberalità. Allo stesso modo può decrementare tramite atti
unilaterali di disposizione a gratuiti a favore di terzi e tramite
l’indebitamento.
Dopo il tempo, l’altra dimensione di cui tener conto è quella
spaziale , reddito e patrimonio possono essere suddivisi in più
nazioni, così da avere un reddito d’impresa prodotto nella nazione X
che va ad alimentare un patrimonio nel paese Y investito in titoli ed
immobili i cui frutti sono spesi/consumati nel paese Z.
Quindi il patrimonio oltre ad avere un stratificazione temporale e
quindi con essa una successione di vicende tributari che ne hanno
caratterizzato il livello medio di prelievo tramite variazioni di
aliquote, esenzioni, condoni etc, risente anche della dimensione
spaziale che determina sensibili variazioni nel prelievo fiscale per
lo stessi presupposto impositivo da nazione a nazione .
Normalmente la manifestazione esteriore del patrimonio non sono i
singoli beni contenuti in più o meno anonimi strutture societari o il
denaro liquidi e titoli alla cui riservatezza (almeno nelle forme
legali) provvede il sistema bancario, ma piuttosto tramite i consumi
(intesi anche come beni durevoli privi della caratteristica della
conservazione del valore) .
Quindi in questo percorso a ritroso le dichiarazioni dei redditi
fisiologicamente e monitorano e tassano solo una parte dei flussi di
reddito, in particolare solo alcune tipologie di reddito e perdippiù
italiane, che hanno contribuito all’ incremento della ricchezza,
mentre, è scontato, che a livello patologico non possono aver traccia
dell’evasione.
Poter inferire delle conclusione sulle modalità di formazione fiscale
del patrimonio e quindi dei redditi (intesi come variazione del
patrimonio tassato e quelli invece evasi) è un esercizio abbastanza
improbabile a causa delle asimmetrie informative tra contribuente e
terzi, soprattutto se lo si vuol realizzare a livello analitico. Uno
schema logico di causa effetto come quello sopra delineato serve
soprattutto per ragionare e fungere da paradigma di verosimiglianza ai
metodi di stima che potrebbero e dovrebbero esser fatte per i
soggetti “amministrativamente non rigidi” o ancora prima per
sistematizzare il prelievo tributario .
Aggiungo un esempio di applicazione di questo schema logico.
Partiamo da una società che prevalentemente registra delle perdite che
continua ad operare tramite continue capitalizzazion i dai soci
tramite finanziamenti o versamenti in conto capitale a copertura delle
perdite. Cioè è possibile se i soci possano disporre di uno stock di
ricchezza sufficientemente grande, formatosi negli anni precedente
tramite l'accumulo di redditi tassati in varie forme o comunque esenti
piuttosto che trasferimenti unilaterali (donazioni eredità anche
queste soggette ad imposizine indiretta), altrimenti rimarrebbe
l'alternativa della vincita alla lotteria (comunque tracciata) o
dell'evasione

venerdì 26 marzo 2010

EVASIONE FISCALE FRA MORALISMI E PRAGMATICA

Affrontare il "problema" evasione fiscale sotto l'aspetto moralistico non aiuta la coesione sociale, si dice. E, comunque, da un punto di vista di strategia tributaria è sbagliato. Sembra più opportuno, invece, intervenire sulle "condizioni" che rendono possibile l'evasione, cercando di rendere il "terreno" acido o basico per impedirne la proliferazione.
Questo ragionamento può sembrare freddo, asettico, meccanicistico, insomma, può apparire senza cuore. In un primo momento è parso così anche a me. Però...riflettendo bene mi sono accorto di una cosa, di un aspetto che fa parte del mio io più profondo: gli aspetti istituzionali, con le loro regole, vengono dopo la mia persona; infatti, essi non traggono legittimazione dal fatto di essere approvati dal parlamento ed essere pubblicati in gazzetta, ma sono io che do loro legittimazione. Il fatto che la loro osservanza mi possa essere imposta coattivamente non significa che per me siano, per forza di cose, legittimi. Non voglio di certo fare apologia anarchica, me ne guarderei bene. Ma questo ragionamento mi fa capire che potrei anche decidere "legittimamente", magari perchè ho le mie profonde motivazioni, di non pagare le imposte. Se così stessero le cose dovremmo concludere che il "senso morale" è un qualche cosa di estremamente personale, con cui non si può barare, con cui non si può scendere a patti: la coscienza di ciascuno di noi è, infatti, sempre veritiera e severa. Ed allora si può ben concludere che, anche da un punto di vista tributario, "il moralismo" del tipo "di tutta l'erba un fascio" non serve proprio a nulla.

martedì 23 febbraio 2010

LO ZEN DEL DIRITTO TRIBUTARIO

Confucio, nato in Cinca nel 551 a.c., ha delineato un sistema morale
che è (anche) stato posto alla base dell'agire del buon governatore (e
non solo). Le sue opere sono: "la grande dottrine, il giusto mezzo e
i...dialoghi". Non vi sono indici, quindi è difficile rintracciare,
per il lettore che vuole "farsi un'idea prima", uno schema
"previo"..deve, prima, percorrere il sentiero. Diversi sono gli
aspetti, secondo me, che potrebbero formare anche una sorta di "ZEN
DEL DIRITTO TRIBUTARIO". Ne cito solo alcuni:
"Esiste una grande via per pordurre la ricchezza. Se quelli che la
producono sono molti, e quelli che la consumano sono pochi; se quelli
che la generano lo fanno in fretta, e quelli che la usano lo fanno con
lentezza, ci sarà sempre ricchezza a sufficienza";
"L'uomo solidale sacrifica la ricchezza, in favore della sua persona.
L'uomo non solidale sacrifica la sua persona, in favore della
ricchezza";
"Non si è ancora mai dato il caso che i superiori amino la
solidarietà, e i subordinati non amino la giustizia. Non si è ancora
mai dato il caso che si ami la giustizia, e gli affari (del sovrano)
non vengono portati a compimento. Non si è ancora mai dato il caso che
la ricchezza venga stipata in arsenali a magazzini, mentre (il
sovrano) non ne gode affatto".
"...lo Stato non dovrebbe considerare il profitto come il vero
profitto, ma la giustizia come il vero profitto".

mercoledì 17 febbraio 2010

IPERTROFIA DEL MOMENTO ACCERTATIVO

L'ipertrofia del momento accertativo dei maggiori tributi, in Italia,
che si coglie molto bene sia dalla produzione normativa, anche
secondaria, ed interpretativa da parte dell'Agenzia Entrate, così come
dall'attenzione dei media e dai dibattiti, più o meno da salotto, è
un'evidente "spia" della situazione patologica in cui versa il nostro
sistema fiscale. Infatti, se ci pensiamo bene non possiamo non
constatare che è veramente esagerato lo spazio che tale segmento della
vicenda tributaria cattura. Questo è dovuto ad una patologia (abuso di
questo termine medico, come ormai, purtroppo, avviene in tante
discussioni in cui si dibatte qualche cosa che non va) del sistema,
nella sua parte sostanziale, per la cui parziale correzione si rende
necessario premere sul momento procedurarle. Occorre essere
consapevoli di questa semplice constatazione, altrimenti si corre il
rischio di incentrare l'attenzione solo sulla medicina (palliativa,
fra l'altro) anzichè sul paziente. Occorre rivisitare il sistema
partendo da una riflessione sui presupposti e soggetti anzitutto la
cui strutturazione dovrebbe essere la più corta possibile rispetto
alla fase accertativa, giungendo quasi ad un'immedesimazione con essa.
Nel mentre si definisce il presupposto s'intercetta la materia
imponibile.

lunedì 15 febbraio 2010

LA TENTAZIONE DELLA VIA BREVE E LA NECESSITA' DI UNA PATRIMONIALE

La constatazione del parziale fallimento dell'attuale sistema tributario italiano porta, fra l'altro, anche ad indagare la possibilità di correttivi che passino attraverso l'abbandono dell'imposizione personale globale a favore di una sorta di tassazione reale. Non so dire se tale impostazione sia da avvalorare o meno, ma in prima approsimazione si può concludere che la cautela è d'obbligo. Quello che piuttosto andrebbe approfondito è la possibilità d'introdurre un'imposta patrimoniale di tipo generale. E' abbastanza epidermico ritenere che una sua introduzione potrebbe anche agire da correttivo delle distorsioni derivanti dall'evasione. Infatti, se guardiamo al nostro sistema non si può fare a meno di constatare che attualmente si palesa come monco. Sono presenti imposte sui redditi, sui consumi specifici e generali, alcune imposte patrimoniali speciali ma, fra quest'ultime, ne manca una di tipo generale. Se la capacità economica si accumula su soggetti che non l'hanno prodotta, per i più vari motivi (successioni, intestazioni di comodo, ecc.) la si può colpire in modo più o meno personale/reale, con la creazione di presupposti d'imposta semplici e chiari, che, come detto altrove, abbiano il pregio di definire ed interecettare, in un solo momento, la materia imponibile. Tale ultima osservazione pone bene in evidenza l'opportunità di "accorciare la distanza normativa" fra momento sostanziale e momento d'accertamento.

giovedì 11 febbraio 2010

RENDITE FISCALI DI SETTORE: RIFORME ED AUTONOMIA DEL DIRITTO TRIBUTARIO

Forse, possiamo anche convenire che in un determinato momento storico il "settore" possa assumere una sua particolare fisionomia tale da giustificare un favor politico a livello di tassazione. La rendita di posizione, anche se sperequata, inevitabilmente, al suo interno, è, in tali casi, voluta. Essa, allora, non si può definire stortura. La conseguenze di tale visione è che il diritto tributario, talvolta non può essere preso esclusivamente in considerazione da un punto di vista atomistico, quale scienza (sociale) autonoma che non possa risentire di "pressioni" esterne. Anch'esso (il diritto tributario) vive in un ambiente cui è collegato, senza soluzione di continuità, è ovvio.
L'anomalia si verifica, invece, quando le condizioni che originariamente avevano giustificato l'esistenza di rendite, più o meno sperequate, vengono meno, in quanto muta il contesto socio economico di riferimento. Ad esempio, l'agricoltura degli anni 2000 non è più quella degli anni 50, ecc. E' chiaro che metter mano a tali riforme, epocali, non può risolversi in una stagione di slogan e ridde tipografiche. Servirebbe un ampio e costruttivo confronto che coinvolga i vari attori: parti sociali, politici, tecnici, ecc. Ma purtroppo, tale modalità di procedere, non è ad appannaggio degli italici costumi.

mercoledì 10 febbraio 2010

CAPACITA' ECONOMICA FRA PATRIMONIO E REDDITO

La ricchezza - patrimonio è una grandezza “stock” cioè adatta ad
essere misurata - in modo più o meno approssimata - in un preciso
istante di tempo , così posso dire cha al 31 dicembre posseggo tre
case, un certo saldo nel conto corrente bancario ed un certo ammontare
di titoli. Il patrimonio rappresenta l’aspetto statico, la fotografia
di una serie di beni in un dato momento .
La ricchezza - patrimonio si forma in due modi o tramite il reddito o
tramite trasferimenti unilaterali di ricchezza. Possono verificarsi
modificazioni qualitative della composizione del patrimonio tramite
degli “scambi” di alcuni beni con altri : denaro contro immobili o
titoli contro denaro.
Il reddito è quello che tutti conosciamo, è un flusso di beni
misurabile in un intervallo temporale ed esprime l’aspetto dinamico
del patrimonio che lo accresce o lo diminuisce (nel caso si tratti di
perdite). In un'altra visione non è altro che la differenza tra il
patrimonio misurato in due diversi momenti. Il reddito può essere
prodotto dal patrimonio stesso (come gli interessi attivi, utili,
canoni di locazione, plusvalenze) oppure tramite le attività sganciate
dal patrimonio : lavoro dipendente, autonomo in senso ampio piuttosto
che imprenditoriali .
L’altro modo di accrescimento della ricchezza è rappresentato dai
trasferimenti unilaterali di ricchezza gratuiti come possono essere
le eredità o le donazioni, istantaneamente uno stock di beni entra
nella sfera giuridica del possessore riconnesse a fenomeni successori
i atti di liberalità. Allo stesso modo può decrementare tramite atti
unilaterali di disposizione a gratuiti a favore di terzi e tramite
l’indebitamento.
Dopo il tempo l’altra dimensione di cui tener conto è quella
spaziale , reddito e patrimonio possono essere suddivisi in più
nazioni, così da avere un reddito d’impresa prodotto nella nazione X
che va ad alimentare un patrimonio nel paese Y investito in titoli ed
immobili i cui frutti sono spesi/consumati nel paese Z.
Quindi il patrimonio oltre ad avere un stratificazione temporale e
quindi con essa una successione di vicende tributari che ne hanno
caratterizzato il livello medio di prelievo tramite variazioni di
aliquote, esenzioni, condoni etc, risente anche della dimensione
spaziale che determina sensibili variazioni nel prelievo fiscale per
lo stessi presupposto impositivo da nazione a nazione .
Normalmente la manifestazione esteriore del patrimonio non sono i
singoli beni contenuti in più o meno anonimi strutture societari
piuttosto che il denaro liquidi e titoli alla cui riservatezza (almeno
nelle forme legali) provvede il sistema bancario ma piuttosto tramite
i consumi (intesi anche come beni durevoli privi della
caratteristica della conservazione del valore) .
Quindi in questo percorso a ritroso le dichiarazioni dei redditi anche
fisiologicamente monitorano e tassano solo una parte dei flussi di
reddito, in particolare solo alcune tipologie di reddito e perdippiù
italiane, che hanno contribuito all’ incremento della ricchezza,
mentre a livello patologicamente non possono aver traccia
dell’evasione.
Poter inferire delle conclusione sulle modalità di formazione fiscale
del patrimonio e quindi dei redditi (intesi come variazione del
patrimonio tassate e quelli invece evase) è un esercizio abbastanza
improbabile a causa delle asimmetrie informative tra contribuente e
terzi, soprattutto se lo si vuol realizzare a livello analitico, uno
schema logico di causa effetto come quello sopra delineato serve
soprattutto per ragionare e fungere da paradigma di verosimiglianza ai
metodi di stima che potrebbero e dovrebbero esser fatte per i
soggetti “amministrativamente non rigidi” .

Aggiungo un esempio di applicazione di questo schema logico.
Partiamo da una società che prevalentemente registra delle perdite che
continua ad operare tramite continue capitalizzazioni dai soci
tramite finanziamenti o versamenti in conto capitale a copertura delle
perdite. Cioè è possibile se i soci possano disporre di uno stock di
ricchezza sufficientemente grande, formatosi negli anni precedente
tramite l'accumulo di redditi tassati in varie forme o comunque
esenti piuttosto che trasferimenti unilaterali (donazioni eredità
anche queste soggette ad imposizine indiretta), altrimenti rimarrebbe
l'alternativa della vincita alla lotteria (comunque tracciata) o
dell'evasione.

Stefano Palestini

lunedì 8 febbraio 2010

ESISTE UNA CAPACITA' ECONOMICA GLOBALE?

La Dottrina, ultimamente, sta constatando come la ricomposizione della capacità economica globale del soggetto, (seppur indicata sul finire dell’800 e primi decenni del 900, come obbiettivo da perseguire, negli allora considerati moderni sistemi fiscali), oggi, non sia realisticamente perseguibile. Infatti, nell’immaginare un sistema fiscale funzionale alla realtà sociale di riferimento, estremamente composita e frammentata, come quella attuale, propria di un’economia globalizzata, si palesa maggiormente utile la creazione di presupposti impositivi, che seppur sacrificano i principi di personalità e progressività, sono, invece, in grado d’intercettare la ricchezza nel momento più opportuno da un punto di vista erariale. In effetti, se si guarda ai paesi scadinavi, ad esempio, ove il problema evasione è ridotto ai minimi termini, si nota proprio che il loro sistema si sta spostando, sempre di più verso imposte cedolari.
E’ “facile” notare anche quanto segue:
- Il diritto tributario dovrebbe, anzi, deve stare al di fuori delle previe scelte politiche; infatti, la “costruzione” di una teoria tributaria, sotto questo profilo, dovrebbe essere “asettica”. Ciò che rileva è il perseguire, per quanto possibile, la corretta determinazione della capacità economica. Sapendo bene che in una scienza sociale tutto è relativo, sfumato in un costante precario e soprattutto dinamico equilibrio. Nulla è statico. Tutto è situazionale.
- Argomenti perciò che riguardano la progressività, la proporzionalità, la globalità, oppure, le cedolari, le sostitutive, a prima battuta possono sembrare opzioni politiche. Da quello che ci stiamo dicendo, invece, sembra non esser così. Se come osservatore della materia fiscale mi accorgo che il sistema comincia, con la progressività, con la personalità, a far acqua (tecnicamente), allora, senza entrare in discorsi “politici” potrò ben concludere, con tutte la cautele del caso, che forse può essere di una qualche utililtà reindagare possibilità di tassazione diverse (tipo le cedelori - da intendersi questo un termine sintetico da non prendersi alla lettera).

mercoledì 3 febbraio 2010

PAESI A FISCALITA' PRIVILEGIATA: APPROCCI DIVERSI PER SITUAZIONI DIVERSE

occorre capire bene come
funzionano i Paradisi fiscali, perchè questi non sono tutti uguali.
Avere una società nelle Bahamas oppure a Tortola riposnde ad esigenze
di nascondere stock di richhezza accumulati (evasi) altrove in qunato
la loro principale caratteristica dovrebbe essere l'anonimato oltre
che l'assenza di tassazione, tuttavia rimane difficile pensare ad una
attività imprenditoriale che produca redditi nelle Bahamas (fosre il
turismo...) . Qui potrebbero non esserci dubbi se ci sei è
estremamente probabile che devi nascondere qualcosa. E' anche vero che
normlamente non si fanno interpelli per certi pardisi fiscali , perchè
le società sono nascoste da lunghe/opache catene di controllo e perchè
di solito sono magazzini di richezza e non produttrici di reddito,
qui il problema non è tanto trocare i rapporti commerciali ma come
scovare stock di ricchezza che si muovono quindi come seguire le
traccie finanziarie (mi sembra che altrove Fabio avesse indicato una
modalità simile imposto ultimamente negli USA). Anche questo non è
facile che spesso si organizzano speculazioni finanziarie o altre
transazioni immateriali tra parti correlate con utile assicurato a
favore della controparte nelle Bahamas.
Altro discorso sono le nazioni come Hong Kong o Singapore , che
dispongono di un sistema economico evoluto ed efficiente, dove
l'anonimato non è garantito, il sistema tributario è ben organizzato
ma le aliquote sono terribilemnte basse (in certi casi per le attività
legate alle esportazioni tendenti allo 0).In questo caso occorre ben
soppesare le limitazioni fiscalmente da imporre con la libertà di
sviluppare il proprio business, questi casi sono difficili da
trattare perchè spesso si dispone realmente di una struttura
organizzativa locale per servire i mercati di sbocco del far esat o
per approviggionarsi in Cina quindi l'interpello lo supero con una
certa facilità ma poi applico un bel prezzo di trasferimento
vantaggioso per la società di Hong Kong che fa utili mentre la
controllante italiana va in pareggio, se non in perdita, a livello di
singola transazione . Qui gli interpelli come attualmente strutturati
servono a poco, posso dimostrare la struttura organizzativa, il legame
con il mercato di riferimento, l'interesse economico .... però non
pago le imposte
Infine vi sono i paradisi "adatti " a tassare i passive income,
questi , molto velocemente, li tassiamo in Italia per trasparenaza.

Stefano Palestini

venerdì 29 gennaio 2010

CRITERI DI VALUTAZIONE DEI RAPPORTI CON CONSOCIATE ESTERE

Concordo perfettamente con la valenza degli interpelli in generale,
mentre ritengo sia un po’ più complessa il discorso sulla effettiva
attività commerciale svolta.
Quello che sarebbe auspicabile elaborare sono pochi criteri ,
condivisi, da applicare nei rapporti con l’estero che conducano a
tassare “il giusto” indipendentemente da dove è localizzata la
controparte , il problema è la corretta individuazione dei redditi da
tassare in Italia indipendentemente se l’altro paese è una nazione
europea piuttosto che un incluso nelle Black List (anche se in questi
casi la propensione a spostare il reddito è più alta e magari potrebbe
essere necessario qualche accorgimento), non sono poche le nazioni con
tassazioni sensibilmente più basse non incluse nella black list .
Per le società che controllano o comunque partecipano in maniera
significative in società estere, la ripartizione della capacità
contributiva tra l’Italia e il paese estero deve avvenire tramite il
criterio della remunerazione dei fattori di produzione impiegati nelle
attività .
Per le attività produttive e commerciali (differente è il discorso
dei “passive income”)questa ripartizione dovrebbe avvenire mediante
la formazione dei prezzi di trasferimento che hanno il compito di
garantire la remunerazione dei fattori di produzione impiegati da
ciascuno dei due contraenti (i costi sostenuti) più il margine di
profitto (mark-up) che dovrà essere proporzionale al valore aggiunto
derivante dalle attività svolte dalle società.
Mi spiego meglio, se la controllata residente nel paradiso fiscale si
limita a commercializzare la merce prodotto in italia non è
difficile dimostrare che si dispone realmente di una struttura minima
nel paradiso fiscale (un locale in affitto in un business center , un
contabile e due operatori al call center commerciale , magari part-
time ) sufficienti ad ottenere un interpello favorevole, per poi
applicare magari prezzi di trasferimento dall’Italia artificiosamente
bassi, tendenti al costo di produzione, in modo che tutti i margini
restano in capo a quest’ultima società, che in realtà quasi nulla
produce nella catena del valore, con buona pace degli interpelli (il
suo contributo alla economicità del business e consisterà nel
risparmio ottenuto sul costo del lavoro rispetto all’italia, al
risparmio di costi delle trasferte se tali clienti fossero stati
gestiti direttamente dall’Italia , dalla maggior facilità di trovare
personale commerciale che parli cinese piuttosto che giapponese etc.).
L’interpello va bene in via facoltativa ma deve includere anche una
valutazione del transfer price , per tutti gli altri si fanno
verifiche sulla determinazione del transfer price sulla base di
documentazione che diventerebbe obbligatoria tramite le risorse
dell’AF liberate dall’eliminazione degli attuali interpelli
obbligatori .
Un discorso ulteriore sono i passive incombe che forse tasserei sempre
per trasparenza , queste società sono caratterizzate dall’assenza di
una attività gestionale vera e propria ma dal godimento degli assets
ed il principale fattore da remunerare è il capitale impiegato per
l’investimento. Spesso tali società più che un contenitore di attività
economiche mi sembrano uno strumento per enucleare giuridicamente tali
beni dalla compagnie societaria ; non hanno una autonoma
organizzazione ed una vita propria distinta da quella dei soci , non
vedo valore aggiunto prodotto dal contenuto dell’involucro
societario . Non è riscontrabile un valore dell’ attività economica
svolta maggiore del valore dei suoi singoli componenti (marchio,
attività finanziarie, immobili) singolarmente considerati. Queste
caratteristiche non giustificano una vita propria economica,
distinta da quella dei soci , il che mi porta a pensare che la
capacità contributiva generata appartiene ai soci è ciò potrebbe
essere sufficiente per disporre una sorta di tassazione per
trasparenza (come le società di persone) .

stefano palestini

mercoledì 27 gennaio 2010

LE PRECLUSIONI DA OMESSE ISTANZE DI INTERPELLO

Un aspetto che andrebbe, forse, evidenziato, almeno a livello di teoria generale, è che la presentazione di istanze d'interpello, di qualsiasi genere esse siano, non dovrebbe mai pregiudicare la dimostrazione, sia nel procedimento che nel processo, della situazione effettiva da parte del contribuente. Ne, tantomeno, dovrebbero sussistere preclusioni per l'accesso al giudice tributario, nel caso di omessa istanza. Mi sembra che un'istanza di interpello non possa mai assumere la funzione di vero presupposto processuale, anche se lo dice una norma di legge, altrimenti si violerebbe l'art. 24 cost. Infine, mi pare difficilmente criticabile la disposizione che impone l'esercizio effettivo dell'attività commerciale od industriale nel paese estero: da un punto di vista teorico (e quindi ponendo casi di scuola) possono, forse, porsi delle obbiezioni, ma in concreto la semplicità della sua formulazione sembra cogliere il bersaglio: perchè allochi la tua sede in un paradiso fiscale se, poi, il cuore del "business" è altrove. Piuttosto, accanto alla industrialità e commercialità andrebbe aggiunta anche l'attività di servizi.

lunedì 25 gennaio 2010

INTERESSI PASSIVI: L'ENNESIMA RIFORMA?

In tema di limitazioni alla deducibilità degli interessi passivi si evidenzia molto bene come, la stratificazione normativa, dovuta al susseguirsi di scelte fiscali, fra loro incongruenti, oltre che la contemporanea presenza di diverse mission, affidate, talvolta, alla norma fiscale, possano, progressivamente, far allontanare un provvedimento normativo dalla sua coerenza iniziale. La legislazione degli ultimi anni relativa alla disciplina degli interessi passivi nel reddito d’impresa ne è un chiaro esempio. Occorre, forse, partire, dall’organica e coerente disciplina della DIT, (che interveniva, in primis, in modo, fra l’altro, tecnicamente corretto, sul fronte indebitamento, per giungere solo indirettamente a condizionare, eventualmente, l’ammontare degli interessi dedotti a bilancio), per passare, poi, alla farraginosa e quanto mai complessa “thin cap”, giungendo, infine, alla pessima disciplina ROL. Questi ultimi due provvedimenti, mi pare di poter dire, hanno risentito negativamente, a differenza della dual incom tax, delle diverse finalità loro proprie: antielusive, di contrasto all’erosione della base imponibile e di politica economica. E’ vero, lo strumento tributario può essere utilizzato anche per obbiettivi extrafiscali, quali il rafforzare la patrimonializza zione delle imprese ma questo non dovrebbe mai portare a distorcere la primaria e fondamentale finalità della norma tributaria che è quella di determinare correttamente la capacità economica dei contribuenti. Infatti, la disciplina della deducibilità degli interessi passivi dal reddito d’impresa mette in chiaro risalto l’importanza delle determinazioni quantitative, analitico – aziendali, seppure adattate alle logiche tributarie. Sappiamo tutti, essendo questo un “concetto sociale”, d’uso comune, che il “costo” dei finanziamenti è espresso dall’interesse il quale, se relativo ad investimenti inerenti l’attività d’impresa, assume la fondamentale caratteristica della deducibilità fiscale. Già questo, forse, potrebbe bastare, ma la determinazione analitico aziendale, si connota poi, come insegni tu, Raffaello, di quelle specificità proprie delle logiche simmetrico tributarie. Ne sono un esempio, proprio in tema di interessi passivi, la loro indeducibilità integrale, se specificamente inerenti a componenti positivi di reddito “non tassabili”, oppure, di converso, la non deducibilità per la parte proporzionale a “ricavi” esenti od esclusi dal reddito fiscale. Lo stesso dicasi per l’afferenza a componenti dell’attivo di bilancio i cui “frutti” vengono esclusi dalla base imponibile. Questi criteri trovano, come detto, giustificazione nelle logiche di coerenza fiscale. La “disciplina ROL”, invece, pare discostarsene ed è difficile, veramente, ricercare una sua giustificazione sistematica, se non individuare, invece, solo un maldestro tentativo di contrasto all’erosione fiscale ed un indiretto sprone al ricorrer meno all’indebitamento da parte delle imprese, alterando, però significativame nte la corretta determinazione della capacità economica. Una semplice osservazione: la “competenza” fiscale degli interessi è in funzione del tempo della loro maturazione, imporne, quindi, una deduzione rinviata agli esercizi successivi solo perché il loro ammontare supera la “franchigia” del 30% del risultato operativo lordo, introduce una forte asimmetria od incoerenza fra norme diverse che disciplinano la competenza dei componenti positivi e negativi del reddito d’impresa. Ben diversa ed ampiamente giustificabile, da un punto di vista di logiche fiscali, è ad esempio la disciplina avente ad oggetto il rinvio ad esercizi successivi della deduzione di spese di manutenzione. Ritornando, allora, ai principi che possiamo rinvenire dalle determinazioni analitico aziendali, sembrerebbe più opportuno, nell’analisi dei fenomeni finanziari, guardare non solo ai componenti del conto economico, ma anche a quelli dello stato patrimoniale, analizzato, quest’ultimo, nella sua configurazione, appunto, finanziaria che contrappone le FONTI (passivo) ai correlativi IMPIEGHI (attivo). Individuandosi correlazioni generiche o specifiche dei finanziamenti ai relativi investimenti, così come l’inerenza di questi ultimi all’attività d’impresa. Un semplice esempio, che rende l’idea, nell’ambito, principalmente, delle società di persone ed imprese individuali, (ma non solo), può esser quello della presenza di finanziamenti a fronte di un attivo circolante composto anche da crediti verso soci per prelievi effettuati durante l’esercizio ben maggiori all’ammontare del patrimonio netto disponibile. In tal caso il finanziamento, specie se generico, concorre, sicuramente anche ad impieghi estranei all’esercizio dell’impresa. Ben più coerente, come accennato, sotto questo profilo, era la disciplina DIT: non distorceva la determinazione della capacità economica, che avveniva a monte, cioè prima della sua applicazione. Inoltre, essa, concretizzava la sua funzione extrafiscale di strumento agevolativo, mettendo ben in evidenza la dimensione finanziaria del patrimonio (in senso lato) d’impresa, premiando, appunto con tassazione duale di favore, la parte di reddito figurativo, estrapolabile da quello globale, imputabile, da un punto di vista logico, al “capitale proprio” quale componente, a sua volta, che concorre a formare la massa complessiva delle fonti. Allora, si può anche concludere, che solo in quest’ottica potrebbe essere di qualche utilità, forse, lo spunto, offerto dagli studiosi di scienza delle finanze, volto ad una discriminazione fra capitale proprio e capitale di terzi. Senza non dimenticare, poi, che l’analisi delle concrete esperienze delle diverse disposizioni sopra esaminate, DIT e Thin Cap, in particolare, porta ad evidenziare un “fallimento” del loro intento extra fiscale (nonostante la pregevolezza tecnica della prima), tanto per cui, l’attuale provvedimento in vigore (ROL), data la sua criticabilità sul versante dell’influsso negativo nella determinazione della capacità economica, non potrà di certo basare le proprie fortune su sperati, quanto, come visto, irraggiungibili, risultati dal lato delle politiche economiche miranti al rafforzamento della capitalizzazione delle imprese.

giovedì 21 gennaio 2010

A PROPOSITO DI RIFORMA FISCALI

Le riforme, quelle vere, partono sempre dal basso e, di solito, non avvengono in due giorni. Ne è un esempio la riforma degli anni 70, che catalizzava un percorso lungo un secolo. Insomma, le riforme prendono le mosse sempre da esigenze vere, magari nascoste o non immediatamente percepibili, anche se, forse, stanno, semplicemente, dietro l'angolo. Va detto che ciò che avviene nella normalità non sono le riforme globali od epocali. Infatti, dopo gli anni 70, si può ricordare solo qualche abbozzo parziale di riforma: vedi l'ICI, il '97 di Visco, ed il mezzo vagito del 2003. Certo, se guardiamo, oggi, il sistema fiscale italiano, nel 2010, constatiamo che non è più, di certo, quello del 1973. Questo ci porta a concludere che l'impalacatura tributaria di uno stato, in realtà, si modifica incessantemente, si autoriforma senza soluzione di continuità, talvolta con scelte consapevoli e talaltra con nuove soluzioni di "rimedio". Proprio come avviene, ad esempio, per quelle chiese che, talvolta, troviamo nei nostri centri storici, nelle quali si vede la stratificazione dei vari stili che nei secoli si sono succeduti (elementi romanici che si fondono con quelli gotici e barocchi). Esigenze di cautela finanziaria, (esempio ne è la parziale riforma 2003), rendono impossibile una riforma "d'amblais" dell'intero sistema: sarebbe troppo pericoloso. Nel mentre si rifà la casa occorre continuare ad abitarla. L'importante è la "funzionalità" ed il saper cogliere, da parte dei politici, per quanto possibile, le vere necissità della collettività. Oggi, purtroppo, parlare di riforma fiscale sa molto di autoreferenzialità.

venerdì 8 gennaio 2010

RIDUZIONE / ABOLIZIONE DELL'IRAP: E' POSSIBILE?

In questi mesi abbiamo tutti letto o sentito dellaproposta di abolire progressivamente l’irap (un letimotiv ormai costante). Il buon Tremonti ha dato giustamente l’altolà. Se l’irap dà un gettito di 40 miliardi di euro alle regioni per finanziare la sanità, abolendola è inevitabile che i soldi ai contribuenti dovranno essere richiesti in altro modo, o con nuove imposte, magari regionali, così lo stato fa bella figura, o con l’aumento dei ticket sanitari oppure con la riduzione o privatizzazione dei servizi. Confindustria ha additato subito, quale esempio da seguire, la promessa riduzione delle imposte, dal 2011, fatta da Angela Merkel, durante una conferenza stampa congiunta col nuovo alleato di governo liberarale (ove i protagonisti hanno parlato con una sola voce). La differenza, però è che là hanno deciso di abbassare le tasse sui ceti meno abbienti, aumentando la quota esente da 6 a 7 mila euro (oltre che incrementare gli assegni famigliari).
Per le imprese, invece, hanno previsto una razionalizzazione della deduzione degli interessi passivi così come il riporto delle perdite
(argomenti che centrano, mi sembra, con la crisi economica attuale).
Quindi, mi pare di poter concludere che quando si parla di abolire l’irap o ridurala, in concreto si dimentica che di spazi per queste manovre non ve ne sono.
Come ricordato, nonostante questo balzello sia un’imposta regionale non poco influsso si ha sui conti pubblici statali. I traferimenti da Roma verso la periferia beneficiano, infatti, indirettamente anche dei miliardi di gettito
che derivano dall’imposta regionale. Infine, le ultime notizie ci dicono che il debito è aumentato di 90 miliardi …fate voi

IMPOSTE SUI CONSUMI E RIFORMA FISCALE

Ciclicamente ritorna all’attenzione dell’opinione pubblica l’importante argomento riguardante la “riforma fiscale”. Gli aspetti che, di volta in volta, vengono in rilievo sono i più diversi: si va dal federalismo fiscale, alla diminuzione della pressione fiscale, ecc.
In particolare, qualche considerazione si può fare in merito all’ipotesi riguardante l’aumento delle imposte sui consumi, quale efficace antidoto contro l’evasione fiscale.
Sotto il profilo economico, senza dubbio le imposte sui consumi sono inique: incidono, a parità di importo maggiormente su chi ha redditi minori.
Il concetto è prima di tutto sociale e conseguentemente economico.
Sappiamo che gli economisti pongono in risalto il criterio “dell'efficienza”, da intendersi, secondo la loro metodologia, nel senso che il sistema “alloca” o “richiede” risorse senza rispettare la c.d. utilità marginale che la ricchezza ha per ciascun soggetto economico.
Come detto è evidente che ciò che l'economia formalizza ha una previo substrato sociale, capibile in modo intuitivo. Sotto questo profilo, quindi, anche l'economia è scienza sociale, pur usando
strumenti d'indagine formali. I professori più prudenti mettono sempre ben in luce
quest'aspetto, di modo che gli studenti si rendono subito conto di non avere a che fare con una scienza esatta.
Riferendomi alle imposte sui consumi non le ho definite imposte indirette in quanto esse colpiscono direttamente un'altra forma in cui si manifesta il reddito, cioè il suo consumo.
La scienza delle finanze, ma l’argomento potrebbe esser ben approfondito anche in un testo di diritto tributario, spiega che la pluralità di tributi serve in quanto così facendo il sistema intercetta ricchezza che potrebbe esser altrimenti sfuggita ad una prima tassazione del reddito prodotto od entrata che sia.
E' indubbio che così procedendo si ha una doppia imposizione giuridica (se chi consuma è lo stesso soggetto che ha prodotto il reddito), oppure economica, (se la stessa ricchezza viene spesa da altri i quali magari l'hanno ereditata). Questo fa parte della fisiologia del sistema tributario. Altrimenti il
super legislatore dovrebbe esser talmente in gamba di poter creare una mono-macro-imposta, che a fronte di un unico prelievo possa esaurire in sé le necessità fiscali sottostanti.
Siccome invece le imperfezioni fanno parte della natura delle cose, allora occorre arrangiarsi come meglio si può, fino ad ipotizzare pessimi scenari, quale appunto, una fiscalità basata sull'incremento
delle imposte dei consumi.
Non dimentichiamoci, però che il nostro art. 53 della Costituzione, impone, almeno da un punto di vista formale, che il sistema fiscale sia, nel suo complesso, progressivo. Ed anche se il 53 venisse
modificato, sempre esisterebbero gli art. 2 e 3 della medesima carta, questi sì veramente granitici, essendo principi fondanti e non modificabili, pena una “rottura” che, mi pare, non potrà mai avere quel reale consenso necessario proveniente dalla base sociale. Penso che anche in questo caso abbia alla fine ragione il Prof. Lupi: siamo alla presenza dei soliti effetti annuncio tipici di questa società, in tanti settori, a cui, quindi, nemmeno il fisco mediatico si può sottrarre. Per rendersene definitivamente conto basta infatti riflettere su queste due ultime considerazioni: da un punto di vista di politica economia non ha senso gravare i consumi soprattutto nei momenti di crisi; mentre sul versante di politica fiscale, invece, incrementare le imposte sui consumi potrebbe essere inconcludente se il sistema non poggia prevalentemente, sui “grandi distributori organizzati”, la cui rigidità amministrativa, come sempre fa notare Raffaello, impedisce loro di occultare materia imponibile al fisco.

giovedì 7 gennaio 2010

L'ACCERTAMENTO UNIFICATO CONTRIBUTIVO FISCALE

Ci si è posti, giustamente, l'interrogativo della possibile attrazione delle vertenze contributive alla giurisdizione fiscale.
A parte considerazioni teoriche, relative all'eventuale natura tributaria dei contributi, penso sia, invece, più interessante e realistico ragionare su altri aspetti, per così dire pratici.
Infatti, buona parte del contenzioso relativo agli autonomi poggia sullo stesso atto di accertamento confezionato ai fini tributari: le basi fiscali - contributive sono unificate. Perciò, se la commissione tributaria annulla l'atto impositivo, gli effetti della sentenza si riverberano anche sul rapporto previdenziale. Purtroppo oggi il sistema non è coerente rispetto a questa realtà. Il contribuente deve incardinare anche il contenzioso previdenziale, contro l'iscrizione a ruolo dei contributi, avanti il tribunale civile e non è detto che il giudice del lavoro sospenda, come dovrebbe, il processo in attesa dell'esito di quello tributario.
Le esigenze dell'INPS e dell'Agenzia entrate sono similari. Si pensi alle ormai costanti convenzioni fra i due enti in tema di accertamento, tese a creare sinergie operative, volte all'interscambio di dati ad alla creazione di una "cultura" comune e condivisa dei fuzionari. Ad esempio, recentemente, l'Agenzia si è impegnata a fornire all'INPS l'elenco dei soggetti non coerenti con gli studi con riguardo al valore aggiunto per addetto, così come fornirà assistenza per verificare quei contribuenti sospetti che chiedono all'ente previdenziale l'erogazione di prestazioni in esenzione.
E' evidente che siamo ai primi passi e fin da subito bisognerà evitare di cadere nell'errore di credere che sia possibile traslare sulle verifiche contributive possibili accertamenti basati su utopici automatiscmi, che già vanno presi con le pinze anche in campo strettamente fiscali.
Ma la tendenza, di fatto e che parte dal basso, è quella di una progressiva unificazione della materia, che muovendo, appunto, dall'aspetto pratico e "vitale" dell'accertamento, presto o tardi, probabilmente, porterà ad un'auspicabile unificazione della giurisdizione.