giovedì 31 dicembre 2009

SCARICARE TUTTO COMBATTE L'EVASIONE?

Un luogo comune è quello relativo al pensare che se si permettesse ai privati di scaricare in dichiarazione ogni spesa di vita, l'evasione verrebbe meno.
Mi ricordo che qualche anno fa l'argomento era stato affrontato con delle pagine dossier da un noto quotidiano economico. Venivano poste a confronto le esperienze di altri paesi. Il succo comunque era che allo stato questo modo di procedere avrebbe forse causato una diminuzione di gettito, salvo il riconoscere detrazioni molto limitate. Un altro problema è poi quello delle verifiche, cioè occorre istituire un sistema di controllo automatico dei dati indicati in dichiarazione da milioni di contribuenti, non potendo di certo pretendere che si facciano delle verifiche documentali effettive, se non a campione. Infine, considerato il fallimento, per ovvi motivi di impraticabilità, del tentativo di reintroduzione degli elenchi clienti fornitori, si capisce come questa strada di emersione dell'evasione, anche se corretta da un punto di vista teorico, dal lato pratico sia, invece difficilmente realizzabile.

mercoledì 30 dicembre 2009

ADDIO AI VALORI STORICI?

Abbiamo da sempre studiato che il criterio del costo storico
appartiene ai capisaldi che informano il TUIR in generale, sia da un
punto di vista civilistico (per le regole bilancistiche) che fiscale.
Questa chiave di lettura, oggi, mi pare di poter concludere, non
rispecchia più la realtà dei fatti. Anche la finanziaria 2010 proroga,
per l'ennesima volta, i vari provvedimenti di rivalutazione di inizio
anni 2000 (in particolare per terreni e partecipazioni), senza parlare
poi delle "rivalutazioni", ormai introdotte a regime, già da due anni,
per conferimenti, fusioni e scissioni. E non si dimentichi, nemmeno,
il riallineamento dei valori riguardanti i bilanci dei soggetti IAS.
Il tutto ovviamente mediante tassazione premiale "dell'annullamento",
medianto incremento dei costi, delle plusvalenze latenti. Lo "strano"
è il constatare che queste operazioni si sono radicate a livello
tributario proprio nel momento in cui i loro presupposti "scientifici"
sono venuti meno: infatti, periodi di forte inflazione,
fortunatamente, non si sono più verificati da quando i vari stati
europei hanno stretto il sodalizio relativo alla moneta unica. Quindi,
l'unica spiegazione logica è quella relativa a manovre di "drenaggio
fiscale", che trovano una giustificazione, più che di coerenza di
sistema, (salvo che per i provvedimenti di inizio anni 2000) nelle
esigenze incamerare entrate da parte dell'erario. Occorrerà, perciò,
cercare di capire se tutto questo potrà avere un effetto di
"trascinamento" o "condizionamento" sul resto del sistema fiscale, a
partire dal reddito d'impresa, con particolare riguardo al regime
delle c.d. operazioni straordinarie.

martedì 29 dicembre 2009

IL GIUDIZIO ED I SUOI CRITERI

Su questo argomento c'è senz'altro chi può essere in grado di scrivere un testo di 1000 pagine. In poche righe, però, si può dire che il Giudice, nel decidere il singolo caso sottoposto alla sua attenzione non può che comportarsi, inevitabilmente, come ogni essere umano. Quali saranno i criteri che di fatto seguirà nel confezionare la sentenza? Egli consapevolmente crederà di seguire regole giuridiche precise, come se dovesse, quale scienziato, applicare formule da laboratorio. In effetti, per talune fasi del suo procedere, più o meno, può essere proprio così: nel mentre, ad esempio, verifica la propria giurisdizione, competenza, la sussistenza di ipotesi di improcedibilità od, anche, se è alla presenza di un litisconsorzio per cui necessità l'integrazione del contraddittorio. Questi aspetti, ed altri, sono di contorno, quasi, oserei dire, secondari. Ma mentre si avvicina sempre di più al "cuore" della propria funzione, ovverosia il "decidere il merito" della vertenza, egli, probabilmente, in modo sempre più inconsapevole, tenderà a riversare nel motto suo interno di maturazione della decisione, non tanto i criteri giuridici (nel senso corrente del termine e cui crederà, invero, di seguire il più fedelmente possibile), ma quanto, piuttosto, altri criteri, sempre suoi interni, che lo informano come persona. Cioè tenderà a seguire i suoi valori intimi, le sue credenze, che, sotto questo profilo, poco si differenziano, anzi sono del tutto uguali, a quelli che informano l'agire di qualsiasi essere umano. Infatti, tendenzialmente, prima si agisce, poi si decide e successivamente, ancora, si giustifica. Parafrasando noti principi di psicologia: è più la comunicazione non verbale che quella verbale, più il non detto che il detto, e perciò, più il deciso (secondo equità) che il deciso secondo diritto.

giovedì 24 dicembre 2009

CASSAZIONE E STUDI DI SETTORE: POCHE NOVITA'

La Cassazione mi sembra che non dica nulla di nuovo rispetto a quanto
affermato dalla stessa Amministrazione con la storica circolare
5/2008. Quindi, nessun automatismo ma occorre ricalibrare l’elaborato
statistico sulla posizione del contribuente. E’, però un’ovvia
constatazione il rilevare che di fatto il contraddittorio sia molto
spesso in un qualche cosa di diverso, in genere, rispetto a quello che
dovrebbe essere. Si risolve, infatti, per lo più, in un mercanteggiare
sconti negli angusti spazi di riduzione che l’Agenzia si è data al
fine di rispettare i propri vincoli interni di budget. E’ vero, così
procedendo ci si allontana da quello che dovrebbe essere un
fisiologico momento di confronto fra Amministrazione e Contribuente.
Ma perchè ciò accade? Penso vi siano principlamente due ragioni. La
prima risiede nel fatto che il fisco deve trattare milioni di
posizioni e quindi con difficoltà risce ad avere il tempo e le risorse
necessarie per personalizzare le stime, anche limitandosi ad
analizzare quelle relative ai soli contribuenti selezionati. La
seconda motivazione è da ravvisarsi poi nella situazioni in cui tante
volte il contribuente medesimo versa di fronte al funzionario:
presentandosi, cioè, con poche carte a proprio favore, lo sconto,
probabilmente, ottenibile con un poco di efficace dialettica, diventa
di già un bel risultato. Comunque, per finire, mi sembra che si possa
ancora una volta affermare che in un contesto di fiscalità di massa
strumenti di valutazione serializzata, da applicarsi sui piccoli
autonomi (per la cui valutazione appare più congrua una stima dei dati
esteriori che non invece basarsi sull’attendibilità di risultati
contabili tante volte palesemente inverosimili), non vadano più di
tanto abborriti. Certo l’ideale sarebbe che questi strumenti, anzichè
essere utilizzati sul piano procedimentale, cioè, sul versante della
prova, venissero invece applicati quali criteri sostanziali di
determinazione, appunto para catastale, del reddito, su base
opzionale, ovviamente, da parte del contribuente.

venerdì 18 dicembre 2009

DIVIDENDI IN USCITA: NON BASTA L'IRES?

Forse, i casi in cui si applica la ritenuta a titolo d'imposta del 27%, sui dividendi in uscita, sono residuali, vista la quasi totale esenzione per quelli distribuiti oltrefrontiera a controllanti UE e le convenzioni contro le doppie imposizioni per il resto. Comunque, a ben vedere, questa norma di chiusura non ha molto senso ove si tenga presente che per il non residente il criterio della sua tassazione personale (con tutti i suoi corollari, tipo quello della progressività) perde, in concreto, significato, lasciando, invece, il posto al principio della tassazione reale sulla fonte del reddito. Nel caso dei dividendi tassare la fonte significa tassare la società che li produce con l'IRES, per cui, almeno così a me pare, almeno da un punto di vista terico, non vi è affatto bisogno di gravare ulteriormente questo tipo di reddito con la ritenuta di cui in premessa.

giovedì 17 dicembre 2009

REDDITOMETRO FRA SERIALITA' E PONDERAZIONI

Il redditometro potrebbe essere impiegato in modo seriale ma in una
versione light: si sommano le spese note all'agenzia (colf, viaggi,
ecc) più il minimo vitale per acquistarsi il cibo e l'accertamento
parte solo se quelle spese superano di molto il reddito.
La logica che funziona del redditometro è: a me Agenzia risulta da
dati "certi" che tu hai speso almeno 100 negli ultimi tre anni e hai
dichiarato un reddito netto medio di 20: dove hai preso i soldi?
I dati però devo essere appunto "certi" (es. stipendio annuo colf) e
non presunti in base ai moltiplicatori (es. stipendio annuo colf x 3).
Se infatti si applicano moltiplicatori "presuntivi" in modo rigido
alla massa, facciamo la fine degli studi di settore: accertamenti che
colpiscono maggiori capacità economiche solo sulla carta e tutte
ancora da dimostrare.
Insomma, a mio modesto parere, la serialità che funziona si deve
basare su elementi certi (si pensi ad esempio il controllo automatico
delle dichiarazioni per quanto riguarda gli omessi versamenti), mentre
le presunzioni richiedono una analisi caso per caso che non è
standardizzabile (e inoltre richiederebbe una sensibilità valutativa
specifica, da parte di esperti dell'attività oggetto di valutazione
che ESCONO DALL'UFFICIO e si mettono a stimare sul "campo" - e ciò in
Italia purtroppo non si è mai visto).
E' chiaro che l'attività di accertamento standard ha costi molto bassi
al contrario di un'analisi spefica svolta in modo serio. Ed è per
questo che si cerca di serializzare tutto. Ma serializzare anche le
presunzioni, senza dotare l'Agenzia delle competenze e sensibilità
necessarie per valutare, è un tentativo vano e destinato al
fallimento.
Claudio Cerutti

REDDITOMETRO AL LIFTING: ALCUNE CONSIDERAZIONI

Mi auguro che in sede di revisione dei coefficenti venga, per taluni di essi, tenuto conto, in senso favorevole ai contribuenti, del mutato contesto sociale. Il caso di badanti e colf è paradigmatico: non sempre vi è un'acclarata invalidità o non autosufficenza da parte della persona anziana per ottenere "l'esimente fiscale". I conti, spesso, sono quelli della serva: basta avere il sufficente per pagare l'addetta oltre che le minime spese di vita. Altro che 16.000,00 x 3. Emerge, poi, un altro aspetto importante, come lascia intuire il Prof. Beghin in questi giorni su Postilla: questi strumenti di accertamento non dovrebbero essere seriali ma lo sono in concreto, visto il contesto di fiscalità di massa. Qua, ormai da tempo, si ha lo strappo fra la necessaria ponderazione che l'ufficio dovrebbe calare su ogni posizione e l'impellenza di dover trattare molte, troppe pratiche, con vincoli (contrattuali ?! di budget fra Agenzia e Ministero). Insomma, non ce la fanno. Staremo a vedere.

mercoledì 16 dicembre 2009

DAL "PAN PROCESSUALISMO" AL "GIURISDIZIONALISMO", (OVVERO DALLA PADELLA ALLA BRACE)

Più che di "pan processualismo" si dovrebbe parlare di
"giurisdizionalismo", intendendo esprimere con ciò la pessima
abitudine degli operatori giuridici, in particolare del diritto
tributario, di far assurgere le massime giurisprudenziali, soprattutto
quelle di legittimità, a veri e propri "precedenti vincolanti" a
seconda, ovviamente, delle "convenienze. E' una tendenza comune ai
vari attori del "palcoscenico fiscale", fra cui in primis,
amministrazione, consluenti e giudici.
Fatta questa premessa appare, allora, non del tutto inutile richiamare
alcuni brevi concetti che penso possano servire a fare poco di
chiarezza su che cosa voglia effettivamente significare il termine
"precedente".
La Cassazione origina storicamente dal Tribunal de Casation francese
post rivoluzione come longa manus del potere legislativo diffidente
dei giudici possibili alleati dell'ancien regime. La sua funzione non
era tanto giurisdizionale ma piuttosto di controllo sul fatto che i
giudici non debordassero oltre la legge.
In Italia con la legge del 41 sull'ordinamento giudiziario le viene
attribuita la funzione nomofilattica...ma la sua natura è
giurisdizionale nell'interesse delle parti più che nell'interesse
pubblico di uniforme interpretazione della legge.
Se le categorie valgono qualche cosa e di qualche utilità può essere
richiamarle non possiamo dimenticarci, dividendo ancora una volta il
mondo in due, che il nostro ordinamento appartiene al sistema
denominato di civil law, tale per cui la pronuncia giudiziaria,
nemmeno quella della cassazione a sezioni unite fa precedente
vincolante: essa è giuridicamente vincolante solo per le parti.
Se questo è vero, allora, è completamente fuori luogo parlare di
retroattività o meno dei principi di ratio legis ricavabili dalla
sentenza. In Italia la sentenza, così come i principi da essa recati
nascono e muoiono lì, fra le parti. Legge vuota quella che sancisce
la nomofilachia, nemmeno le sezioni semplici vi sono obbligate (neppure
dopo la riforma del 2006) e neanche l'umile giudice di primo grado.
Detto questo, allora, è facile constatare che in Italia il precedente
funziona ma alla rovescia, rispetto a quanto avviene presso gli impavidi
sistemi di common law (qua come avete già notato è un ripiegarsi
comodo su una "zuppa", per casi diversi, già "masticata" da altri).
Il nostro sistema, di fatto, più che del "precedente" dovrebbe
denominarsi del "comodo" precedente. Ciò che preoccupa è proprio questo.
Pensiamoci bene: è sbagliato pensare che la "norma generale" possa
essere fatta dal giudice. Nei paesi anglosassoni il giudice "crea" la norma
(casomai nuova) sempre e comunque per il caso concreto che ha di
fronte.
Leggo da Peter Stein "La parte propriamente vincolante di una
precedente decisione è conosciuta coma la ratio decidendi.La ratio
decidendi di un caso non viene determinata dai giudici che decidono
il caso. Essa è identificata dai giudici dei casi successivi, i quali
devono decidere se la decisione costituisce oppure no un precedente
per essi. Tale natura di precedente sussiste se i fatti rilevanti del
caso anteriore sono gli stessi del caso attualmente in
decisione...altrimenti...si dice distinguono il caso anteriore che
non costituisce per essi un precedente. Pertanto il passaggio chiave è
l'accertamento del rapporto di somiglianza o di differenza tra i
fatti rilevanti di due casi". Continua l'Autore dicendo che quasto rapporto
di somiglianza o meno dipenderà su cosa il giudice vorrà porre
l'accento. Insomma, traspare chiaramente il ruolo attivo che il
giudice là deve avere.

lunedì 14 dicembre 2009

AVVIAMENTO FRA IMPOSTA DI REGISTRO E REDDITO D'IMPRESA

Da un punto di vista letterale appare evidente che l’Ufficio non può utilizzare, ai fini della determinazione della plusvalenza d’impresa derivante della cessione di azienda, gli stessi criteri valevoli per l’imposta di registro. Sembra un caso di scuola: la determinazione dell’imponibile ai fini di quest’ultima imposta fa riferimento al valore venale mentre occorre basarsi sui corrispettivi contrattuali per le IIDD. In quest’ultimo comparto il valore venale diventa rilevante solo nella procedura d’accertamento, quale indizio che, corroborato da altri elementi, possa fondare un maggior valore. Insomma, da un lato il criterio opera come modalità legale di determinazione della basa imponibile, dall’altro, invece, serve nella successiva fase di accertamento. Detto così, mi pare, non si fa molta fatica a tenere distinti gli aspetti ed a capire in quali ristretti limiti vada utilizzato il criterio del valore normale. Perché, allora, la Cassazione sta assumendo un atteggiamento diverso? Penso che una risposta, almeno parziale, si potrebbe avere ponendo bene in risalto la specificità dei casi sottoposti alla sua decisione. Infatti, potrebbe esser che in quella data situazione emergano particolarità tali da rendere evidente la ragionevolezza del ricorso a questo criterio forfetario. Quello che non dovrebbe mai mancare, invece, è una congrua motivazione che non potrà, certo, mai essere del tipo: “siccome ai fini dell’imposta di registro si è stabilito questo, allora, la stessa cifra, per forza, deve valere anche ai fini della determinazione del reddito d’impresa”. Ciò che difetta, oggi, in modo grave, in un contesto di fiscalità di massa, ove è importante “fare cassa” il più presto possibile, è il frettoloso recepimento acritico, da parte degli Uffici, di massime stringate, rinvenibili dalla giurisprudenza di legittimità, senza la necessaria ponderazione sul caso specifico oggetto di controllo. Ma anche un’altro ragionamento si può fare: sembra venire in rilievo la necessità di procedere ad una determinazione di tipo presuntivo nei confronti dei piccoli autonomi, anche nella fase di realizzazione di avvenimenti c.d. straordinari della loro vita imprenditoriale. Infatti, i criteri scientifici, proposti con autorevolezza dal Guatri, ad esempio, sono più adatti per le grandi realtà aziendali che non per le piccole. Per un bar, un negozio, un laboratorio artigiano, spesso, si seguono, nella prassi professionale, criteri forfetari che molto si assomigliano a quelli utilizzati ai fini della richiamata imposta di registro: reddito medio degli ultimi tre esercizi, moltiplicato per tre, ad esempio. La necessità di ammettere la prova contraria, intesa in senso molto largo, deve, però essere un principio accolto e condiviso dall’Agenzia delle Entrate. Infatti, il funzionario dovrebbe possedere un’elevata sensibilità valutativa, che spesso non ha: ritornando all’esempio del bar, oggi le licenze si svendono a poche decine di migliaia di euro (è forse alle porte una liberalizzazione) ed il mercato non è più quello di qualche anno fa. Il giovane funzionario che deve trattare la pratica in modo serializzato e piatto sa questo? I capelli grigi, che hanno i capo team, almeno di secondo livello, dovrebbero condurre a prendere delle decisioni più ponderate. Ma questo, purtroppo, ultimamente, avviene sempre meno frequentemente, a causa dei più volte richiamati condizionamenti di budget cui l’Agenzia, in modo sempre più pressante è, negli ultimi tempi sottoposta.

venerdì 11 dicembre 2009

CESSIONE AZIENDA E RATEAZIONE PLUSVALENZA

La prassi professionale, "istintivamente", mi ha sempre portato ad escludere la possibilità di rateizzare in cinque anni la plusvalenza da cessione di azienda se l'imprenditore cessa contestualmente la propria attività. Nell'approfondire alcune tematiche inerenti ho letto, però, che qualcuno la pensa diversamente. L'aspetto è interessante, in quanto potrebbe essere un'opportunità allettante da cogliere nel caso in cui non sia decorso il quinquennio necessario per accedere al regime di tassazione separata. In particolare è stato rilevato che anche se l'imprenditore cessa fiscalmente la propria posizione si avrebbe una sorta di "ultrattività" del regime tributario dei beni relativi all'impresa, che sopravvive alla perdita della qualifica di imprenditore, estendendosi alla facoltà di rateizzare la plusvalenza (in tal senso MICCINESI, PORCARO e STEVANATO, contra BENAZZI e LEO). La tesi mi pare possa essere condivisa anche se, da un punto di vista pratico, presta il fianco a non poche difficoltà. La stessa Amministrazione, attraverso il proprio sistema informatico, riscontrerà, inevitabilmente delle anomalie, rilevando la presentazione in dichiarazione di quadri F e G, nonostante sia stata acquisita in data anteriore la comunicazione di cessazione. Inoltre, sotto il profilo previdenziale è facile immaginare l'insorgere di possibili contenziosi dovuti al fatto che l'INPS, sistematicamente, incrocia i propri dati relativi ai versamenti con i quadri relativi al reddito d'impresa delle dichiarazioni fiscali. Anche in questo caso si avrà un disallineamento della cessazione della posizione previdenziale, antecedente, come detto, rispetto ai periodi d'imposta indicati in dichiarazione. Nonostante la posizione previdenziale sia stata già cessata, l'INPS, probabilmente, avrebbe buon gioco nel dimostrare che il reddito/plusvalenza è stato "prodotto" dall'inprenditore nell'esercizio della propria attività, salvo che la cessione dell'azienda non sia avvenuta in una fase formale di liquidazione, previamente comunicata all'Agenzia Entrate e con previa cessazione di ogni posizione, sia camerale che previdenziale.

GLI INEVITABILI EQUIVOCI DELLA COMUNICAZIONE MEDIATICA

"Meno tasse sui ceti medi..." e più sussidi per i poveri è uno dei
concetti portanti, fra i tanti altri condivisibili espressi
nell'intervento di Alberto Alesina sul sole del 21 agosto 2009. E'
evidente che siamo di fronte ad un'antinomia, cioè di quel particolare
tipo di paradosso che indica la compresenza di due affermazioni
contraddittorie. Per capire meglio ci possono essere di ausilio alcune
semplici considerazioni tipiche della scienza delle finanze (che come
auspica il Prof. Lupi in altra parte di questo sito) dovrebbero anche
servire per spiegare i comportamenti sociali rilevanti ai fini di una
teoria della tassazione.
Se si diminuisce la pressione sui ceti medi, (da intendersi come
quell'agglomera to di contribuenti un poco al di sopra della soglia di
povertà e con redditi non eccessivamente alti, fascia, questa
significativa per l'erario in quanto rappresenta la maggior area su
cui pescare imposte, che identifica, insomma, la parte centrale di una
curva a campana dalla cui semplice osservazione si acclare bene che
ogni manovra fatta sulle ali, povere o ricche, sarà sempre, in termini
di gettito, poco significativa, salvo sortire approvazione o
disapprovazione politica), come dicevo, se si diminuisce la pressione
sui ceti medi, allora, inevitabilmente mancheranno risorse da
destinare ai meno abbienti. Si tratta, quindi, di una ipotesi
scarsamente realistica, soprattutto in un paese quale l'Italia ove
l'entità del debito pubblico e la conseguente rigidità che ne deriva
non permette manovre significative in tal senso, salvo effettuare
quegli interventi, anch'essi politicamente negativi a livello di
consenso, di aggiustamento strutturale della finanza pubblica.

giovedì 10 dicembre 2009

DALL'AUTOLIQUIDAZIONE ALL'AUTOCONTROLLO

Qualcuno, "non ricordo più chi", disse che le rivoluzioni epocali sono
quelle silenziose, che avvengono, cioè, lentamente,
impercettibilemente, senza che nessuno se ne accorga. Il passaggio
dall'imposizione officiosa alla c.d. autoliquidazione del tributo non
è stato, però, così. Diversamente, invece, l'approdo alla
determinazione analitico aziendale: forse nessuno l'avrebbe
lucidamente constatato se non ce lo avesse fatto notare, in modo
alquanto argomentato, il Prof. Lupi. Probabilmente un qualche cosa di
simile potrebbe avvenire, con il dovuto tempo e gradualismo, per
l'autocontrollo, ossia per il verifica del rispetto degli obblighi
formali e sostanziali effettuata dallo stesso contribuente attraverso
soggetti terzi, rispetto all'Amministrazione, da questi delegati. Tale
controllo, mi pare si possa già concludere, si limiterà al "regime
giuridico del dichiarato" in quanto la lotta all'evasione sostanziale
non può che passare attraverso la progressiva consolidazione di regimi
paracatastali di determinazione del reddito, da una parte, e la
formazione, in capo al Fisco, di strutture di intelligence capaci di
approcciarsi alla fiscalità della grande impresa, anche
transnazionale, dall'altra I primi segnali di questo nuovo modo di
procedere si sono avuti con l'introduzione del visto leggero e
pesante, comunque mi pare, sino ad ora, poco gettonato, in quanto
facoltativo. Oggi, invece, con l'avvento obbligatorio della
certificazione dei crediti iva, superiori ad una certa soglia, si
richiede una qualche cosa in più al contribuente: si crea un vero e
proprio "onere" a suo carico (la cui accezione civilistica, mi sembra,
calzi perfettamente). Se egli vuole fruire del credito deve prima
certificarlo, appunto, con l'intervento di soggetti esterni che diano
alla stessa Amministrazione le garanzie sufficenti di un operato
imparziale. I profili di criticità sono diversi: dal costo di questo
servizio alle difficoltà, che così si introducono, all'effettivo
esercizio del diritto di detrazione iva (principio caro, questo, alla
Corte di Giustizia Europea). Comunque quel che qui interessa cogliere
sono i "segnali" di una eventuale futura evoluzione che potrebbe
subire il rapporto fisco - contribuente in tema di contralli, ed al
riguardo non si può fare a meno di constatare che l'Amministrazione,
di fatto, mai potrà, comunque svuotarsi del suo ruolo attivo
concretizzantesi nella, tanto cara, ai classici, "potestà
amministrativa d'imposizione". Panta rem.
Mauro Franchi

RAPPORTI CON L'ESTERO: QUALI ALTRE POSSIBILI VALUTAZIONI?

La legge n. 227/1990 sul monitoraggio fiscale obbliga a compilare il
c.d. quadro W solamente le persone fisiche, gli enti non commerciali e
le società semplici. Nessun adempimento, invece, per le società di
capitali. E' probabile che il "legislatore" di allora abbia pensato
che fossero sufficenti le garanzie derivanti dalla tenuta di una
ordinata, completa e veritiera contabilità. Anche oggi, verificando il
contenuto, ad esempio, del modello UNICO SOCIETA' DI CAPITALI 2009, si
può rinvenire un supplemento d'informazioni, richiesto a tali
soggetti, solo nel quadro FC, avente ad oggetto i rapporti con
partecipate residenti in paradisi fiscali, cui si applica sia la
trasparenza e sia la rideterminazione del reddito secondo il TUIR. In
questi 19 anni si sarebbe potuto fare, invece, di più nella
strutturazione, per gradi, di una serie ponderata di informazioni da
richiedere alle imprese trasnazionali o comunque interessate da non
episodici rapporti con l'estero. A tal fine mi sono sembrate sensate
le proposte avanzate, proprio 20 anni fa, dal Prof. Nuzzo, il quale
auspicava il compleamento dell'informativa di bilancio (ad uso
fiscale) di questi enti. In particolare veniva proposto di indicare
non solo le aree geografiche di operatività ma anche i paesi, così
come si consigliava di richiedere report strutturari nelle
movimentazioni finanziarie da e per l'estero. Ovvio, il tutto "cum
granum salis": senza eccedere nella raccolta di informazioni. Troppi
dati diventano inutili. L'aumento delle competenze dei verificatori
avrebbe dovuto andare di pari passo con l'acquisizione di specifiche
sensibilità, sia di selezione che valutative. Insomma, l'introduzione
di un apposito quadro W, diciamo, ad appannaggio delle società
commerciali e di capitale in particolare. In ultimo, vale la pena
ricordare che l'attuale informativa civilistica di bilancio, già
scarna per le esigenze conoscitive dei soci e dei terzi creditori
appare in modo chiaro ed intuitivo insufficente e non aderente allo
scopo specifico d'indagine fiscale che si muove da altri presupposti
ed ha altre finalità.
Mauro Franchi

DIVIDENDI NON RISCOSSI ED INTERESSI

Come spesso accade nel mentre si lavora, nel mentre si hanno fra le
mani determinate carte, sovvengono determiante tematiche viste
fuggitivamente su riviste specializzate. Ad esempio, com fa
l'Amministrazione a dire che i dividendi non riscossi fruttano
interessi? Esiste, infatti, una delibera a monte che legittima
l'erogazione al socio. Tale atto societario, quindi, costituisce il
titolo da cui sorge il diritto di credito del socio. Se costui, non
esercita il suo diritto non può di certo desumersi la volontà
concludente fra costui e la società (pensando per un attimo che esista
una certa distanza fra le due entità giuridiche), nel senso di voler
procedere alla stipula di un contratto di mutuo. Civilisticamente
sappiamo che il silenzio è insignificativo, salvo che il comportamento
concludente delle parti non sia tale da fare univocamente presumere la
conclusione di un accordo e quindi di un contratto. Il fisco, in tal
caso, non può, mi pare, giovarsi di alcuna presunzione, salvo far leva
su quelle precise, gravi e concordanti che non possono di certo esser
considerate se non con estrema prudenza in primis da parte
dell'Ufficio e poi, se del caso, da parte del giudice,il quale
dovrebbe rispedire al mittente la diversa conclusione eventualmente
tratta in sede di un probabile frettoloso confezionamento dell'avviso
di accertamento.
Mauro Franchi

ENTI ASSOCIATIVI FRA SOSTANZA E FORMA

L'art. 30, al comma 1 del d.l. 185/08, fra laltro, recita:"i
corrispettivi, le quote e i contributi di cui all'art. 148...non sono
imponibili a condizione che gli enti associativi siano in possesso dei
REQUISITI QUALIFICANTI previsti dalla normativa tributaria e che
trasmettano per via telematica..."
Oggi è venuto nel mio studio un vecchio cliente che da una decina di
anni ha cessato la propria attività e da pochi mesi è presidente di un
CIRCOLO ANZIANI. Mi porta lo statuto, è del 1987, non registrato,
hanno il codice fiscale, ma i REQUISITI (FORMALI) QUALIFICANTI non ci
sono. Non hanno scritto, cioè, sullo statuto le clausoline di cui
all'art. 148 ed il foglio di carta, come detto, non è nemmeno
registrato. E' un problema, gli dico. Mi guarda perplesso e vedo che
non sa interpretare bene quello che gli dico. Penso dentro di me a
quella decina di anziani che si ritrovano tutti i pomeriggi al circolo
per giocare a carte. In effetti non so che pesci pigliare: dovrebbero
inviare il modello EAS ma il cod.fisc. è vecchio e non possono
indicare gli estremi di registrazione dell'atto perchè inesistenti. Il
rischio di autodenuncia è elevato. Al contempo se non inviano il
modellino li beccano comunque, visto che il cod. fiscale esiste. Sto
riflettendo, in queste ore come cavare le castagne dal fuoco. Ma non
posso fare a meno di pensare, confesso con molta rabbia, al NIGHT
CLUB, che è ad un Km da qua e che sicuramente è un'associazione
incastonata nell'inneffabile art. 148 e che avrà tutte le carte in
regola per continuare alla grande la sua benemerita attività
associativa!!
Mauro Franchi

IL MANCATO INVIO DEL MODELLO EAS FA PERDERE LA DECOMERCIALIZZAZIONE?

Mi domando se l’ommissione dell’invio del modello EAS, comporterà
veramente la decadenza dai benefici di cui all’art. 148 TUIR, data per
scontata l’effettiva sussistenza dei requisiti. La forma, in questo
caso, prevarrebbe sulla sostanza. La norma, è vero, pone, quale
ulteriore condizione, per rimanere nella c.d. decomercializzazione,
l’onere dell’invio della comunicazione, ma, mi pare di poter dire che,
sottoposta ad un “attento” vaglio di costituzionalità, tale
disposizione non può reggere. Altrimenti sarebbe come dire: mi
comunichi di che sesso sei, se non lo fai allora sei, per forza di
cose, maschio, anche, se in realtà, sei femmina. Insomma, mi pare che
un’interpretazione ragionevole della norma sia quella di ammettere
sempre la prova contraria, e con una certa larghezza, da parte
dell’Ente.
Mauro Franchi

FISCALITA' DI MASSA E PONDERAZIONE DELLE SINGOLE POSIZIONI

Penso che nella gestione dei grandi numeri non sia possibile giungere
a delle ponderazioni personalizzate effettive se non in modo alquanto
episodico e, quindi, statisticamente poco significativo. Le banche
dati, già esistenti fra l'altro, della SOGEI, che assommano le
informazioni più varie, fra cui in particolare: dati contabili,
investimenti, disinvestimenti immobiliari, finanziamenti stipulati con
atto pubblico, spese per oneri deducibili, possesso di beni mobili
registrati, andrebbero integrate, in modo effettivo, con altri dati,
già on line in capo all'amministrazione, quali assicurazioni,
monitoraggio valutario, anagrafica conti bancari, anche se, per
quest'ultima, il dato fa solo potenzialmente parte dell'amplissima
base dati teorica a disposizione dell'amministrazione. E' ovvio che
avere troppe informazioni è come non averne nessuna, lo sa bene,
questo, chi si occupa di organizzazione. Daltra parte non occorre
confondere i concetti: un conto è avere un ampio bacino d'informazioni
da cui attingere, un altro, invece, è avere davanti un cruscotto di
informazioni previamente estrapolate, con un criterio guida, dalla
base dati di riferimento. Il passaggio delicato è questo, saper
estrapolare il dato significativo per quelle posizioni che
significativamente vanno valutate, tenendo presente che se è pur vero
che l'incrocio di dati può far emergere una posizione apparentemente
anonima, ancor più profiquo potrebbe essere il "metter relativamente"
da parte quelle posizioni che posso catastizzare per concentrare,
invece, l'analisi d'intelligence su specifiche situazioni ritenute
teoricamente più a rischio. Come insegna il Prof. Lupi, le analisi sul
patrimionio, inteso in senso lato, sono alquanto complesse perchè la
relazione del medesimo con la sua fonte può facilmente perdersi, sia a
causa del tempo e sia a causa delle modificazioni soggettive relative
alla sua imputazione o titolarità (vere, simulate o interposte che
siano). Perciò un trattamento informatizzato di miliardi di dati può
essere ed è senz'altro utile ed indispensabile ma a patto che non si
allinei su una gestione della fiscalità di massa che porta a spalmare
le informazioni, in modo piatto e quindi finalisticamente inutilmente,
su milioni di contribuenti.
Mauro Franchi

VA RIPENSATA LA LOGICA DICHIARATIVA?

Il Prof. Raffaello Lupi, sul sito della FONDAZIONE STUDI TRIBUTARI, ha affrontato,
incisivamente, il tema relativo ad una possibile riforma della
dichiarazione, che potete leggere al seguente link:

http://www.fondazionestuditributari.com/index.php?option=com_content&...


Questo intervento mi ha sollecitato le seguenti riflessioni:
I dati che annualmente la dichiarazione richiedere di ripetere,
inutilmente, sono minimali, tutto il resto, invece, rappresenta
informazioni nuove, principlamente contabili. Ovvio che se per il 95%
dei contribuenti italiani, di fatto, si è capito che la contabilità
non serve a misurare la loro capacità economica, la quale potrebbe
essere più efficacemente determinata guardando alle loro
caratteristiche strutturali, allora converrebbe abbandonare il sistema
di dichiarazione, per come oggi è concepita sui redditi d'impresa e
lavoro autonomo, per istituire, come dice il Prof. Lupi, una sorta di
archivio informatico aperto sulle caratteristiche, appunto,
strutturali. Tutto ciò andrebbe, però, attuato a seguito di una previa
riforma, seria, dei criteri di determinazione del reddito dei piccoli,
che anzichè impastoiarsi sul versante della prova, dovrebbe, come
altrove, diventare metodo di determinazione del reddito. Gli strumenti
per fare questo ci sono, ed anche collaudati, manca la volontà
politica. Il tutoraggio, istituto, mi pare di derivazione anglosassone
(nato, quindi, in un contesto molto differente dal nostro), andrebbe
applicato, veramente, alla grande impresa e non solo, quindi, scritto
sulla carta, come periodicamente, invece, avviene. Diversamente,
pensare ad una riforma della dichiarazione a disciplina sostanziale
invariata, visti i grandi numeri che, comunque, renderebbero sempre
perdente l'amministrazione, porterebbe, probabilmente, ad un nulla di
fatto.
Mauro Franchi

LA MEDIAZIONE FRA DIVERSE ESIGENZE

L'Agenzia delle Entrate deve, necessariamente, contemperare esigenze
diverse, essendo il braccio di trasmissione del Ministero, che mette
la faccia nei rapporti col contribuente. In effetti, sotto questo
profilo, la puntualizzazione di Theplaner, chiama a riflettere, anche
se, a dire il vero, non penso che, se fosse direttamente il Ministero
ad interfacciarsi con la vasta platea di contribuenti la cosa sarebbe
molto diversa: chi è chiamato a pagare le imposte non fa certo queste
distinzioni. Al contempo, come rileva, in questi giorni Raffaello, sul
sito della FONDAZIONE STUDI TRIBUTARI, il "cittadino" è bersagliato da
messaggi mediatici spesso opposti fra loro: qualche mese fà l'Agenzia/
Ministero facevano sapere che gli strumenti fiscali per il pagamento
soft delle imposte potevano anche essere utilizzati per lenire gli
effetti di scarsa liquidità dovuti alla crisi. Non a caso, il governo,
con uno degli ultimi provvedimenti "anticrisi" aveva ritoccato al
ribasso le sanzioni dovute a seguito di ravvedimento operoso, con
l'evidente finalità politica di porre un ultriore strumento, seppur
parzialissimo, per fronteggiare le difficoltà economiche. Il
messaggio, quindi, è passato, per cui era inevitabile che le entrate
di novembre fossero in calo: riduzione degli acconti, uso "improprio?"
dello strumento del ravvedimento, recessione economica, non potevano
far altro che causare una diminuzione delle entrate. A fronte di tale
scenario, ecco allora, che il Governo (Tremonti)/Ministero e
conseguentemente Agenzia, oggi, non possono far altro che porsi alla
platea dei contribuenti col messaggio, opposto, quanto alla filosofia
di fondo, tendente a mettere sull'allerta i medesimi su di un uso
esagerato dell'auto sospensione/riduzione delle imposte. Sono messaggi
con un c.d. effetto annuncio: i controlli, concreti, saranno
pochissimi, ma servono ad ottenere un tendenziale adeguamento a
cascata. Per completare il discorso, infine, non si può fare e meno di
constatare che, per il buon fine dell'operazione, occorre che l'altro
"ingranaggio" dell'apparato di trasmissione dell'informazione fiscale,
cioè gli intermediari, in particolare, facciano la loro parte: nel
mentre valutano una posizione debitoria fiscale, per il cliente
difficile da sostenere finanziariamente, consiglino al medesimo,
"l'estrema pericolosità" di non pagare sperando, nella speranza, poi,
di regolarizzare il tutto con un successivo ravvedimento.
Mauro Franchi

PEX - PARTECIPAZIONI, PERCHE' DIFFERENZIARE IL REGIME?

Di seguito al post precedente, due parole si possono spendere, ulteriormente, per
dire anche che non ha molto senso vincolare l'applicazione del regime
PEX alla iscrizione dei titoli fra gli immobilizzi finanziari, anzichè
nell'attivo circolante. A differenza delle altre condizioni, che
sembrano pertinenti (società senza impresa od allocate in paradisi
fiscali), tale distinguo sembra essere formalistico, tanto più che i
dividendi, come detto, non soggiacciono a tale distinta disciplina. La
natura economica di una partecipazione non cambia di certo in base
alla allocazione di bilancio, ed anche se questa vorrebbe esprimere la
rappresentazione di un bene, la partecipazione, appunto, maggiormente
"fluida", da un punto di vista negoziale e quindi maggiormente
soggetta, sia in positivo che in negativo, agli effetti della
specualzione, non si può certo giungere a concludere che cambi in modo
drastico, se così si può dire, il DNA, gli ingredienti di base, utili
per la sua valutazione, che sono poi sempre questi: patrimonio +
avviamento + gap da forza contrattuale.
Mauro Franchi

PEX E REGIME DIVIDENDI

Devo dire che la soluzione del doppio regime partecipazioni (esenti e
non) rispetto all'unico regime dividendi (sempre esclusi al 95%) mi
lascia poco soddisfatto. Nel senso che si percepisce a pelle, senza
troppi ragionamenti, che qualche cosa potrebbe non funzionare.
Sembrano, cioè, sussistere delle possibili incongruenze: salti
d'imposta o duplicazioni. Soprtattuto quando le operazioni avvengo fra
un soggetto che applica un regime (legittimamente) verso una
controparte che (sempre legittimamente) applica il regime
opposto.Tutto chiaro il discorso dividendi: si evita un'imposizione a
cascata fintanto che questi circolano nell'ambito di soggetti IRES.
Per l'esenzione/indeducibilità delle plus/minusvalenze su
partecipazioni, invece, mi sembra che il discorso si complichi.
Infatti, un poco di razionalità la si raggiunge se si giustifica tale
regime nel senso di vietare la deduzione di perdite di gruppo,
attraverso lo strumento della svalutazione di partecipazioni, visto
che sono stati introdotti i nuovi regimi del consolidato e della
trasparenza (anche se è ovvio constatare che questi due regimi
opzionali non possono esaurire in se la disciplina della materia).
Quando, poi, si tenta di giustificare la PEX dicendo che con le
partecipazioni si monetizzano i dividendi della parteicpata, penso di
pecchi in eccesso. Infatti, nella valutazione di una partecipazione,
partendo dagli elementi patrimoniali, per aggiungervi l'eventuale
avviamento o badwill, risulta evidente che la componente dividendo
futuro, giustifica solo una parte del relativo prezzo
Mauro Franchi