mercoledì 17 luglio 2013

Pressione Tributaria e Debito Pubblico

www.jurismind.it . Nonostante e giustamente venga autorevolmente (Raffaello Lupi) ricordato che il Diritto Tributario si debba solo ed esclusivamente occupare di "Tasse", senza travalicare i propri "confini" occupandosi anche di politica di bilancio statale, opzioni politiche, ecc., appare sensato, oggi (luglio 2013) interrogarsi sull'importante aspetto su come, negli ultimi anni, la politica tribuataria, attuata dai vari governi succedutisi, abbia contribuito alla situazione economica in cui oggi l'Italia si trova. Dal 2008 ad oggi viene in rilievo un dato estremamente allarmante: il debito pubblico è salito dal 103 al 130% del PIL e tutto ciò è avvenuto indipendentemente dai governi succedutesi. Col Governo Berlusconi (2008 - 2011) la Spesa Pubblica è aumentata di oltre 200 miliardi, con una riduzione della pressione tributaria, mentre con il Governo Monti (2011 - 2012), la Spesa Pubblica è aumentata di oltre 100 milioni con un notevole aumento, anche, della pressione tributaria. Evidentemente per vincoli di consenso, pressioni e quant'altro, i vari governi non si sono mai decisi ad intervenire su ciò che dovevano: la riduzione della spesa pubblica. Ciò di cui si sta discutendo, è evidente, è un aspetto che travalica la "scienza tributaria" intesa in senso stretto; essa, infatti, si deve principalmente occupare di presupposti, basi imponibili, aliquote, soggetti passivi, accertamento, riscossione e giudizi tributari, ma non bisogna dimenticare la "base" su cui essa poggia: il concorso alla spesa pubblica. Come sancisce l'art. 53 della Costituzione, infatti: Tutti devono contribuire alle spese pubbliche in ragionre della propria capacità contributiva. Come da sempre si sottilinea con Riflessifiscali, quindi, occorre avere ben presente ciò che da, oggi, senso, all'esistenza di un qualsiasi Sistema Tributario: il concorso alla Spesa Pubblica. Se questà è "endemicamente malata" ecco che allora qualsiasi "politica delle tasse" rischierà di risolversi in un nulla di fatto, rischiando, anzi, di incanalare il sistema economico in un circolo vizioso: l'aumento della pressione (in Italia ormai a livelli insopportabili), rischia di strangolare un'economia ormai asfittica. E le tasse, in uno scenario simile, data la loro natura già di per se "poco attraente" rischiano di diventare un "mostro odioso" nel comune sentire dei contribuenti. Il collegoamento, voluto dai Costituenti, fra Spesa Pubblica e Imposizione Fiscale, deve perciò essere sempre tenuto in debita considerazione dallo Studioso di Diritto Tributario, come una cartina di Tornasole, affinchè abbia compiuta e reale cognizione dello scenario concreto di riferimento.

martedì 5 aprile 2011

MA...COME SI DIALOGA IN CAMPO TRIBUTARIO?

In questi ultimi mesi ho avuto occasione per riflettere su di un
pregio di riflessifiscali che mi era passato inosservato, e cioè la
pacatezza, l'educazione ed il rispetto per l'altro interlocutore,
qualunque esso sia e indipendentemente dalla bontà delle sue
osservazioni.
E' proprio vero, in oltre 3000 post, e forse si più, che si sono
accumulati dal fatidico febbraio 2008 (data in cui il vecchio
dialoghi, improvvisamente, sprofondò nel nulla, in questa scialuppa di
salvataggio che alcuni pochi naufraghi misero assieme in quattro e
quattrotto), mai si è vista traccia di polemica, supponenenza o
peggio.
E' un risultato di cui andare fieri, infatti, dando un occhio a cosa
si scrive in altri luoghi non c'è che rimanere esterefatti (si rasenta
la violenza verbale e la polemica è sempre li che striscia, come se la
verità assoluta fosse sempre in mano, od in bocca, di chi lancia,
elegantemente o meno, epitaffi). Non so se l'acerrima polemica è
tipica solo del diritto tributario ma mi pare che non si intraveda con
simile veemenza in altre contigue materie.
Un'altra cosa su cui ho riflettuto è questa: il tempo cancella e tutto
viene buttato, alcune volte, alle ortiche, pronti a cavalcare, come
spesso accade in questa società contemporanea, nuove esperienze,
dimenticandosi delle precedenti senza riflettere che...perdendo un
anello della catena, questa si spezza.
Detto questo, non posso far altro che seguire il mio io e, cioè,
tornare a scrivere su riflessi.

martedì 26 ottobre 2010

Stefano Palestini: La neutralità fiscale degli interessi nell'ambito del reddito d'impresa

Volevo intervenire nel dibattito sugli oneri finanziari apparso in Dialoghi nr. 5 con delle riflessioni basate sull'economia - finanziaria , in cui cerco di spiegare che per quanto gli interessi passivi siano un costo particolare a livello di capacità contributiva sono sostanzialmente neutri (elusioni / abusi sono chiaramente possibili e da gestire/disincentivare ) se il loro trattamento fiscale è ben coordinata tra società e il socio e con i dividendi. Inoltra la particolare struttura finanziaria del nostro paese rende difficilemmnte individuabili gli abusi, soprattutto se ci si limita a focalizzarsi sul livello del debito o degli oneri finanziari.
Se i ragionamenti stanno in piedi e sono interessanti si potrebbe estrapolare un piccolo articolo per continuare il dibattito iniziato su Dialoghi.

La teoria economico- finanziaria con Modigliani e Miller (M&M) dagli anni ’50 ha spiegato che il valore della società è, per il socio, perfettamente indifferente alla sua struttura finanziaria, cioè alla proporzione tra il debito ed il capitale proprio. Questo vale fino ad un certo livello di indebitamento, superato il quale emerge il rischio di uno squilibrio finanziario patologico.
L’asserzione veniva dimostrata spiegando che un socio (diciamo per semplicità persona fisica) poteva acquistare una società interamente finanziata con capitale proprio impiegando per il 50% i propria risparmi e per l’ulteriore parte prendendo denaro in prestito da una banca , in questa maniera si otteneva l’identico risultato che si avrebbe avuto con una società finanziata per metà da capitale proprio e metà tramite debito. Quindi se il socio può replicare in capo a se stesso la struttura finanziaria preferita , quella realmente esistente nella società diviene indifferente (chiaramente esistono dimostrazioni analitiche nei libri di finanza). Nella sostanza se produco meno utili perché debbo “servire” il debito è anche vero che il socio ha investito un importo inferiore a titolo di capitale proprio.
Ma , ed è qui che giunge il nostro interesse, ciò è vero solo se in capo al finanziatore (socio o banca) vi sia una coerente trattamento fiscale degli interessi in capo alla società ed al socio . Nella versione originale del primo teorema di M&M si ipotizzava assenza della tassazione, ma è facile dimostrare che l’ indifferenza della struttura finanziaria si ottiene anche con una medesima tassazione in capo alla società e al socio. Infatti la tabella in basso mostra che il rendimento complessivo è uguale sia in presenza di imposte ( rendimento complessivo di A uguale a quello di B ) che senza imposte (rendimento complessivo di C uguale a quello di D).
Invece, se gli interessi attivi in capo ai soci fossero tassati, in misura inferiore rispetto alla deducibilità degli interessi passivi in capo alla società e i dividendi fossero indeducibile dal reddito d’impresa, il solo incremento dell’indebitamento porterebbe ad un aumento del valore della società ( almeno fino a che non emergesse concretamente il rischio del dissesto economico finanziario). Si tratterebbe di una sorta di sovvenzione fiscale al debito che non è ugualmente presente nella remunerazione del capitale proprio (tax shield). Nella tabella sotto è possibile constatare che -nel caso limite di assenza di imposte in capo al socio - basta aumentare il debito per avere un incremento del rendimento (rendimento complessivo F > E).
Quindi da ciò si dovrebbe desumere la necessità di una certa simmetricità del trattamento fiscale degli oneri finanziari, che fa da corollario alla neutralità sostanziale dell’operazioni quindi o “deduco e tasso” oppure “non deduco e non tasso” .
Questo ripasso di economia – finanziaria dovrebbe aiutare ad eliminare qualsiasi pregiudizio sul debito e soprattutto sugli interessi passivi , aiutandoci a comprendere i comportamenti degli operatori economici inquadrando il trattamento degli interessi nell’ambito del coordinamento della tassazione tra società e socio con particolare attenzioni agli abusi/elusioni che non sono di facile individuazione, anche perché non ne è necessariamente un indizio l’elevato livello di debito.
La realtà italiana caratterizzato da un accesso al credito basato più sulle garanzie personali dei soci che sulla autonoma capacità delle aziende , rende - da un certo punto di vista - indifferente finanziare la società o il socio, visto che il rischio ricade sempre su quest’ultimo, che unitamente ad una mite tassazione degli interessi attivi in capo alle persone fisiche (tra il12,5% e il 27%) e l’indeducibilità di quelli passivi )nel caso di persone fisiche che non poducono reddito d’impresa), ha fatto preferire l’ indebitamento delle società , consentendo la deducibilità degli oneri finanziari (risparmiando ora il 27,5% dell’IRES ma se torniamo indietro fino alla metà degli annia novanta arriviamo ad oltre il 50%) conseguendo un lecito arbitraggio tra tassazione delle due diverse tipologie di reddito. Questo ha spinto le società a ristretta base societaria ad essere sempre state restie a distribuire i dividendi (magari servirebbe una conferma empirica), perché spesso la remunerazione dei soci avveniva tramite il pagamento degli interessi sui finanziamenti a titolo di credito ( essendo trascurabile l’apporto nel capitale permanente) e tramite salari, piuttosto che consulenze per la loro opera prestata all’interno della società o ancora compensi per le cariche societarie.
Quindi in presenza di elevati oneri finanziari (o elevati livelli di stock del debito) è difficile distinguere, nella nostra realtà, se questi derivano dai comportamenti sopra descritti o da operazioni elusive latu sensu (operazioni circolari) .
Infine volevo concludere esprimendo alcune perplessità sulle considerazioni in Dialoghi nr. 5 sul fatto che gli oneri finanziari interni non sono computati nei calcoli del PIL , credo che questa affermazione non possa essere traslata sulla loro rilevanza fiscale senza qualche ulteriore approfondimento. Il PIL comprende il valore complessivo dei beni e servizi prodotti all'interno di un paese, in un certo intervallo di tempo e destinati ad usi finali . Fondamentale è la caratteristica “destinati ad usi finali” , per la quale gli oneri finanziari tra soggetti nazionali non vengono considerati in quanto trattasi di flusso di redditi intermedi che si annullano come se fosse un bilancio consolidato, ma così avviene esattamente per tutti le altre transazioni interne di beni e servizi, quindi anche una acquisto interno di materie prime (grano) viene escluso dal PIL ma non per questo è indeducibile mentre viene computato il prodotto finito destinato al consumo (il pane).

Stefano Palestini

lunedì 25 ottobre 2010

Stefano Palestini: l limiti degli accertamenti "deterministici" serializzati

Le metodologie di accertamento di tipo “deterministico” come le presunzioni sui versamenti bancari, gli studi di settore, i parametri, i redditometri, le tracciabilità delle operazioni finanziari, gli incroci tra banche dati (eccetto quelle con i sostituti di imposta) hanno cavalcato la speranza di serializzare la determinazione della capacità contributivo in modo a-valutativo ed automatico.
Questi strumenti partendo da comportamenti e dati di fatto generalizzati hanno cercato di assumere dignità giuridica e legittimazione, tramite processi di inferenza statistica, troppo tecnici per essere socialmente condivisi, anche in quegli eventuali casi in cui i risultati avrebbero potuto ritenersi corretti.
La legittimazione è resa necessaria dalla giuridicità della disposizione ottenuta tramite giustificazioni razionali e mediamente osservata ed accettata (…ma questa è un’altra questione). E’ difficile accettare che una funzione statistico-matematica determini quanto del nostro portafoglio deve essere destinato al fisco.

Stesso discorso vale per le presunzioni, risulta difficile condividere per un contribuente che la sua capacità contributiva possa essere definita partendo da fatti generali per inferire una sola conclusione circa la tassazione (presunzioni sulle movimentazioni bancarie). Le presunzioni valgono quando hanno portata molto circoscritta oppure sono generalmente e notoriamente validate.
Si è cercato di ridurre la realtà a dei modelli che partendo da variabili generali determinano le imposte dei singoli individui, con meccanismi e ragionamenti simili ai modelli formali “deterministici”degli economisti (mentre i principi di fondo potrebbero essere corretti se applicati ai singoli casi) .
Occorre focalizzarsi sui fatti specifici che generano capacità contributiva, che sia parziali ed imprecisi sono strettamente legati da un rapporto di causa ed effetto al reddito, solo in questo modo vi sarebbe una maggior coesione sociale intorno alle procedure di monitoraggio/accertamento e richiesta delle imposte.
Sarebbe certamente più semplice creare consenso sociale intorno alla scoperta di fatti produttori di reddito che non su presunzioni e funzioni matematiche.
Per ultimo lascio una considerazione sulla contabilità, questa non è altro che una rappresentazione dei fatti di una “azienda” tramite regole sintattiche, che funziona solo se i fatti gestionali vengono integralmente censiti e poi correttamente rappresentati, questo funziona quando è presente un minimo di rigidità ed autonomia organizzativa.
Quindi da un certo punto di vista non vi è una dualità tra accertamenti fiscali sui fatti o sulla contabilità, quest’ultima si utilizza quando i fatti sono troppi e complessi per cui vi è il bisogno di essere rappresentati in modo sintetico e con un linguaggio comune per poter esser compresi.

Stefano Palestini

giovedì 15 aprile 2010

Segue...commento a Teoria Tributaria del Prof. Raffaello Lupi

Ho adattato delle riflessioni già proposte per commentare i paragrafi
2.2 e seguenti, alla luce di una lettura più complessiva, rapportando
i modelli di comportamento con le forme di evasione. Una lettura
della teoria dell’Agenzia (Agency model) in campo fiscale , può essere
utilizzata per spiegare e riconoscere le organizzazioni aziendali
fortemente strutturate, e quindi rigide, che tendono spontaneamente a
dichiarare la loro capacità contributiva . Si tratta di quelle
strutture a cui, che per dirlo con le parole del Prof. Lupi, basta la
Gazzetta Ufficiale per far pagare le imposte.
Le aziende in cui vi è una management , soprattutto quello
amministrativo, professionale e discretamente autonomo dalla
proprietà, tenderà naturalmente a manifestare la capacità economica
ed applicare prudentemente la normativa fiscale (spesso “scudati” da
robusta pareristica) .
Questo accade non per la bontà del management (è un po’ come la
“benevolenza del macellaio” in Smith) ma per evitare di dover
rispondere alla proprietà di eventuali danni economici legati ad un
contenzioso fiscale . Quindi la Direzione aziendale indirettamente e
per motivazioni diverse aiuta il fisco a perseguire i propri
interessi, consentendogli di superare le asimmetrie informative insite
nel “modello di agenzia”.
In questo caso è lo stesso management che svolge la funzione di
segnalatore al fisco della capacità contributiva dell’azienda, mentre
in altri casi abbiamo visto che è l’azienda che svolge la funzione
di segnalatore dei fornitori e dipendenti.
Diversamente accade nelle aziende in cui la proprietà, che ha un
interesse diretto a ridurre il carico fiscale (che permette di
incassare dividendi più elevati a parità di utile ante imposte o di
incassare direttamente le vendite “in nero”), è fortemente coinvolta
nella gestione dell’impresa in cui l’amministrazione è gestita da
“persone di fiducia” scarsamente responsabilizza te, che eseguono le
direttive impartite . In questo caso il management amministrativo ha
il solo interesse di assecondare la proprietà senza correre alcun
rischio di essere chiamato a rispondere di eventuali contenziosi
fiscali . I soggetti che hanno un vantaggio informativo , proprietà e
management , hanno interessi collusi tra loro ed antitetici rispetto
al fisco, e quest’ultimo non riesce a recuperare le informazioni
occultate sulla capacità contributiva .
Tutti ciò ci fa comprendere come le dimensioni aziendali non sono
sempre un valido spartiacque per individuare i due modelli di gestione
aziendale.
Spingendo oltre il ragionamento, le aziende dotate di un forte
management, abbastanza indipendente dalla proprietà, possono sfociare
in comportamenti patologici come l’evasione “per l’azienda” (Par.
2.4), con cui realizzare acquisti a prezzi più bassi da fornitori che
evadono l’iva , remunerare i dipendenti tramite rimborsi chilometrici
abbattendo il costo per l’azienda in qunato non tassati in capo al
dipendente e non imponibili ai fini contributivi etc; il tutto per far
apparire l’azienda più profittevole e consentire al management di
aumentare la propria influenza ed il tornaconto economico (bonus,
aumento dei compensi). Le aziende in cui la presenza della proprietà
è forte e la gestione è eventualmente affidata a “persone di
fiducia” colluse si hanno i fenomeni di evasione “sopra l’azienda” .
Nei rapporti tra privati e tra autonomi e privati, viene a mancare
quella contrapposizione di interesse che costituisce quella minima
garanzia ai comportamenti conformi alle norme tributarie, che può
esser trovate nelle aziende “rigide” ; ma non finisce qui, perché
congiuntamente manca anche il deterrente della segnalazione, che si
ha con il coinvolgimento di almeno una azienda (possibilmente
rigida). In questi casi è direttamente l’autorità fiscale che deve
necessariamente procurarsi le informazioni sul campo ed analizzare la
plausibilità dei comportamenti con verosimiglianza .
Questa stessa metodologia di indagine dovrà far parte dello
strumentario per valutare il grado di “rigidità” delle aziende, cioè
apprezzare l’applicazione di procedure interne ed il loro controllo,
comprendere il livello di autonomia e indipendenza dalla proprietà di
cui gode il management, che processi che non possono esser stabiliti
per Legge o Circolare; questa è la vera sfida, perché tolti alcuni
casi marginali di aziende che per dimensioni ed articolazione
geografica sono senza dubbio rigide (multinazionali, filiali di
multinazionali estere) la gran parte credo facciano parte di un area
grigia da valutare caso per caso. Tali valutazioni e discrezionalità
innanzitutto sono oggettivamente difficili da effettuare e non fanno
parte del back ground culturale degli Uffici Fiscali, dove comunque
occorre che i singoli funzionari abbiano “le spalle coperte”
altrimenti, se si è sfortunati, ti accusano di favorire qualcuno (o
addirittura di essere corrotto o concusso) .

stefano palestini

venerdì 2 aprile 2010

Riflessioni di Stefano Palestini sul "volumetto" di Raffaello Lupi

Vorrei soffermarmi sul capitolo 1.3 intitolato Riferimento della
tassazione a ricchezza individuabile in modo frammentario, il quale
descrive come non sia possibile una rilevazione della ricchezza
globale degli individui, tenendo conto di tutti i fattori che vi
influiscono dalla nascita alla morte. E’ realisticamente corretto
l’asserzione, soprattutto con l’incremento dei modi, della velocità e
luoghi di circolazione della ricchezza avvenuta negli ultimi decenni.
In aggiunta parte di questa ricchezza nasce direttamente da
speculazioni in strumenti finanziari smaterializzate ed apolidi ,
oppure pur derivando da attività materiali viene veicolata e fatta
circolare comunque tramite questi strumenti finanziari.
Però a mio avviso un sistema tributario non deve perdere di vista
l’obiettivo tendenzialmente di intercettare le fetta più grande di
ricchezza tramite una serie di strumenti diversificati che sono i vari
tributi

Mi piace immaginare gli incrementi di ricchezza come un flusso di
veicoli in autostrada, in marcia da un posto (persona o società) ad
un altro; il tipo di veicolo, indica la causa del flusso : reddito,
donazione, prestito etc . Il veicolo nel suo trasferimento dovrà
superare vari caselli o barriere ai quali pagare o meno un pedaggio,
sulla base della tipologia a cui appartiene. Ecco quindi il veicolo
donazione, che supererà gratuitamente il casello IRES ed IRPEG ed
anche quello IVA, ma sarà, in ogni caso, costretto a pagare il
pedaggio in quello REGISITRO .
In questa visione romanzata, il sistema fiscale è un mappa di strade
e caselli che alcune volte intercettano i flussi di ricchezza in
movimento altre volte quando è giunta a destinazione. Una prima
descrizione approssimazione della mappa è quella che avevo riportato
in un precedente intervento (che riporto alla fine per comodità), ma
la difficoltà è trovare forma tecniche di tassazioni efficiente, non
intendendo solo la struttura del tributo in senso stretto ma anche
l’attività/processi con cui l’Amministrazione Finanziaria li
richiedono/applicano.
Se la direzione è verso un sistema di tassazione ad alto coefficiente
di “realità” , puntando dritto verso i flussi di ricchezza, occorre
tener conto che le persone godono o subiscono , una serie di
situazioni comunque oggettive, che a parità di ricchezza fanno
divergere il loro benessere, si tratta di esigenze di equità
sostanziale a cui dovremo dar risposta . E’ un po’ anche la sfida
della politica economica di trovare quegli indicatori, aggiustamenti
che consentano a parità di PIL (e diciamo anche di indebitamento)
di due nazioni, di comprendere le diversità di benessere . Faccio
l’esempio di due famiglie che percepiscono lo stesso reddito, nella
prima lavora un solo componente, nella seconda lavorano due , a
parità di reddito il benessere della prima sarà molto più alto.
A questo punto tali rivendicazioni debbono trovar posto in correttivi
ad un tassazione fondamentalmente reale oppure occorre sganciare il
comparto welfare/servizi al di fuori di quello ricchezza/tributi.
A tali domande occorre dar risposta prima di modellare un sistema
tributario sulla “realità”, altrimenti si finisce come al
solito…..anche perché come è frammentata la ricchezza sta diventando
sempre più frammentata anche la struttura sociale insieme alle sue
necessità. Forse per coniugare una tassazione reale con la
molteplicità delle situazioni sociali la soluzione a livello di
sistema potrebbe essere la suddivisione del comparto welfare/servizi
da quello della determinazione della capacità contributiva (se non
sbaglio questo aspetto della suddivisione è stato accennato qualche
volta anche da Tremonti) .
Allontanandoci un po’ dal tema della riflessione occorre evidenziare
che nel nostro paese questi temi diventeranno sempre più importanti ,
perché i servizi rivolti alle famiglie sono molto scarsi sia per
tipologia che per estensione , senza riuscire a riequilibrare alcune
peculiarità oggettive personali, che fanno divergere la ricchezza dal
benessere . Si tratta di quei servizi rivolti principalmente alle
fasi della vita delle persone in cui queste non sono autosufficienti o
lo sono scarsamente, vedi l’ infanzia (ad esempio mancanza di asili
nidi), vecchiaia (mancanza di assistenza talvolta anche banale per far
la spesa o andare a fare una visita medica) o casi ancora più
sfortunati.
Fino ad oggi tali esigenze sono state superate tramite la famiglia
allargata che fungevano quasi da un erogatore di servizi interno ai
componenti , ora l’incremento delle famiglie mononucleari derivanti da
esigenze di trovare il lavoro dove c’è, cambiamenti culturali che
portano le nuove famiglie cercare una propria autonomia, incidono
pesantemente sul benessere delle persona a parità di ricchezza. Sono
fenomeno di cui si deve tener conto che sicuramente non sono
bilanciati dalle detrazioni/deduzioni concesse in sede di liquidazione
delle imposte, tanto che anche gli stessi indicatori ISEE diminuiscono
il reddito equivalente per la presenza di figli a carico in maniera
molto più tangibile rispetto alle detrazioni . Come dire lo Stato
riconosce questa situazione quando deve scegliere a chi dare certi
servizi ma non quando deve incassare .
Anche quest’ultime sono problematiche dirette alla conservazione
della coesione sociale in cui un effiace ed efficiente approccio
consente la sostenibilità di un sistema tributario.


Per comodità riporto il mio commento su Riflessifiscali, in cui
ho provato a descrivere una mappa di formazione della ricchezza/
patrimonio, da cui può esser compreso quello che passa per la
dichiarzione e quello che comunque un sistema tributario dovrebbe
intercettare.
La ricchezza - patrimonio è una grandezza “stock” cioè adatta ad
essere misurata - in modo più o meno approssimata - in un preciso
istante di tempo , così posso dire cha al 31 dicembre posseggo tre
case, un certo saldo nel conto corrente bancario ed un certo
ammontare
di titoli. Il patrimonio rappresenta l’aspetto statico, la fotografia
di una serie di beni in un dato momento .
La ricchezza - patrimonio si forma in due modi, tramite il reddito o
tramite trasferimenti unilaterali di ricchezza. Possono verificarsi
modificazioni qualitative nella composizione del patrimonio, tramite
degli “scambi” di alcuni beni con altri : denaro contro immobili o
titoli contro denaro.
Il reddito è quello che tutti conosciamo, un flusso di beni
misurabile in un intervallo temporale, esprime l’aspetto dinamico del
patrimonio, che lo accresce o lo diminuisce (nel caso si tratti di
perdite). In un'altra visione, non è altro che la differenza tra il
patrimonio misurato in due diversi momenti. Il reddito può essere
prodotto dal patrimonio stesso (come gli interessi attivi, utili,
canoni di locazione, plusvalenze) oppure tramite le attività
sganciate dal patrimonio : lavoro dipendente, autonomo in senso ampio
piuttosto che imprenditoriali .
L’altro modo di accrescimento della ricchezza è rappresentato dai
trasferimenti unilaterali di ricchezza gratuiti come possono essere
le eredità o le donazioni, istantaneamente uno stock di beni entra
nella sfera giuridica del possessore riconnesse a fenomeni successori
i atti di liberalità. Allo stesso modo può decrementare tramite atti
unilaterali di disposizione a gratuiti a favore di terzi e tramite
l’indebitamento.
Dopo il tempo, l’altra dimensione di cui tener conto è quella
spaziale , reddito e patrimonio possono essere suddivisi in più
nazioni, così da avere un reddito d’impresa prodotto nella nazione X
che va ad alimentare un patrimonio nel paese Y investito in titoli ed
immobili i cui frutti sono spesi/consumati nel paese Z.
Quindi il patrimonio oltre ad avere un stratificazione temporale e
quindi con essa una successione di vicende tributari che ne hanno
caratterizzato il livello medio di prelievo tramite variazioni di
aliquote, esenzioni, condoni etc, risente anche della dimensione
spaziale che determina sensibili variazioni nel prelievo fiscale per
lo stessi presupposto impositivo da nazione a nazione .
Normalmente la manifestazione esteriore del patrimonio non sono i
singoli beni contenuti in più o meno anonimi strutture societari o il
denaro liquidi e titoli alla cui riservatezza (almeno nelle forme
legali) provvede il sistema bancario, ma piuttosto tramite i consumi
(intesi anche come beni durevoli privi della caratteristica della
conservazione del valore) .
Quindi in questo percorso a ritroso le dichiarazioni dei redditi
fisiologicamente e monitorano e tassano solo una parte dei flussi di
reddito, in particolare solo alcune tipologie di reddito e perdippiù
italiane, che hanno contribuito all’ incremento della ricchezza,
mentre, è scontato, che a livello patologico non possono aver traccia
dell’evasione.
Poter inferire delle conclusione sulle modalità di formazione fiscale
del patrimonio e quindi dei redditi (intesi come variazione del
patrimonio tassato e quelli invece evasi) è un esercizio abbastanza
improbabile a causa delle asimmetrie informative tra contribuente e
terzi, soprattutto se lo si vuol realizzare a livello analitico. Uno
schema logico di causa effetto come quello sopra delineato serve
soprattutto per ragionare e fungere da paradigma di verosimiglianza ai
metodi di stima che potrebbero e dovrebbero esser fatte per i
soggetti “amministrativamente non rigidi” o ancora prima per
sistematizzare il prelievo tributario .
Aggiungo un esempio di applicazione di questo schema logico.
Partiamo da una società che prevalentemente registra delle perdite che
continua ad operare tramite continue capitalizzazion i dai soci
tramite finanziamenti o versamenti in conto capitale a copertura delle
perdite. Cioè è possibile se i soci possano disporre di uno stock di
ricchezza sufficientemente grande, formatosi negli anni precedente
tramite l'accumulo di redditi tassati in varie forme o comunque esenti
piuttosto che trasferimenti unilaterali (donazioni eredità anche
queste soggette ad imposizine indiretta), altrimenti rimarrebbe
l'alternativa della vincita alla lotteria (comunque tracciata) o
dell'evasione